Cronaca
‘Vorrei la parola’, poesia di Maria Grazia Coianiz
Vorrei la parola, di Maria Grazia Coianiz. Prima poesia classificata ex aequo sezione tema libero del Concorso di poesia religiosa 2017 dell’Mcl di San Bartolo a Cintoia, in collaborazione con Isolottolegnaia.it
Vorrei la parola
Vorrei la parola
come ago indolore
a trapassare la carne
per arrivare all’anima.
Vorrei la parola così lieve
da creare illusione di brezza.
Vorrei una coperta di parole
per avvolgerti il cuore
e scaldare la solitudine
ma non ho parole
che il tuo corpo non senta.
Maria Grazia Coianiz – Firenze
È una poesia ” essenziale” come essenziale è tutta la poetica di Maria Grazia Coianis. La parola nuda che illumina il concetto. La parola che invano spesso cerchiamo per scavare dentro la nostra interiorità. La parola che nella sua essenzialità acclara il sentire, penetra la mente, trafigge come dardo scoccato da corda ben tesa. La parola di Maria Grazia è unica nel suo genere. Non lascia spazi ad interpretazioni, a messaggi che il lettore possa interpretare a sua volontà, a sua immagine e somiglianza. Le parole di questa autrice vanno diritte al contenuto espressivo. L’ essenzialità, la nitidezza, la chiarezza espressiva si riallacciano alla potenza dei grandi poeti Ermetici. L’ autrice è interessata a cogliere in sé la chiarezza e a trasmettere, in tutta la sua forza, cio’ che solo l’ illuminazione possiede: la Verità. Questa poesia è di uno splendore unico. Tocca le corde più profonde dell’ anima. Stringe il cuore. Dilata nel contempo le percezioni trasportando il sentire in Spazi sconosciuti eppur antichi quanto l’ umanità. Maria Grazia Coianiz non delude mai. Ci apre continuamente le porte che credevamo di non conoscere.
Grazie a te per il commento, che chiarisce ancora di più il significato di questa poesia!
La parola essenziale che va a formare concetti limpidi. La parola illuminante che nulla ha di meno della parola dei grandi lirici Ermetici del Novecento. La parola limata fino all’ essenzialità estrema. Le immagini evocate sono intense. Il sentimento accorato e forte. Maria Grazia Coianiz conosce la potenza espressiva della parola nuda, essenziale, inequivocabile. Tutta le sue preziose liriche volano sulle ali di parole che portano al lettore la semplicità della Verità. Questa lirica è semplicemente stupenda. Grazie per averla pubblicata. Viviana Alessia
Una lirica che mi accompagna sempre, nelle notti senza buio, nei giorni senza luce. Una poesia che risuona accorata e lieve nel mio animo che cerca sempre un approdo. Avrei voluto trovare le parole che arrivassero nel buio profondo della tua terribile malattia, figlio mio. Le ho cercate quelle parole nel mio cuore stretto fra amore immenso e angoscia senza fondo. Ma non riuscivi ad ascoltarle, amore mio. No, non ne comprendevi il senso di verità perché la malattia ti consentiva di ascoltare solo la sua ingannevole voce. Le ho cercate presso le menti che credevo più illuminate quelle parole, mio amore. Ho percorso strade lunghe e trascorso tempi infiniti per portati presso coloro che io credevo potessero entrare nella tua mente dove brillava sinistro il bagliore che nessuna parola umana riusciva a scalfire. Ho cercato gli uomini di Dio che ti donassero le parole esatte: confidavo sulla loro illuminazione e sulla antica esperienza dei Padri delle Chiese. Non sono servite, amore mio. Sono andata ogni giorno, per anni ad accendere il lume nel tempio supplicando la divinità di parlare con le sue misteriose parole alla tua anima che pur restava bella, adamantina e consueta in te: l’ anima di sempre. Alle volte capivo che qualche voce a te più vicina riusciva misteriosamente a fare breccia e a riportati sui sentieri della vita. Ma la malattia non era conficcata solo nell’ anima e nel cuore; essa incideva profondamente le carni e la carne non ha potuto resistere a tanto male. Ogni voce amica ha cercato di portare luce e conforto attraverso gesti amicali e parole di vita che non sempre ho udito. Eri felice ogni volta,ma non potevi svoltare dalla linea retta e sottile per te tracciata, ora lo so. Fino all’ ultimo ho cercato nelle pieghe più profonde del mio amore le parole che non ferissero la tua anima e il tuo cuore ormai trasparenti. Cercavo parole di vita , parole banali e quotidiane, che cercavano di spingerti ad aggrapparti ancora ad una proda. Ma le tue parole mi dicevano che eri lontano, in un luogo in cui io non potevo raggiungerti. Anche se,disperatamente, mi aggrappavo ancora alla quotidianità, agli ultimi rituali che concordasti coi tuoi curanti, alla Speranza che non mi ha mai abbandonata in un tempo lungo dodici anni. Le ultime parole che ti rivolsi, mentre scendevi con gli occhi brillanti le scale della tua casa terrena furono ancora parole di ordinaria e quotidiana cura verso te stesso, anche se sul cuore andava posandosi uno strano sentire di angoscia diversa dal solito, quasi una nebbia che si dileguava piano inframmezzo al mio stupore che ti nascosi. E cercai di trattenerti, dicendoti che potevi aspettare il mattino seguente per uscire e recarti in biblioteca. Le ultime “parole” che hai udito nella tua casa sono stati i richiami accorati verso la tua cara persona della gattina che avevi cresciuto con infinita sapienza e amore. La carezzasti con le tue belle, lunghe mani e le rispondenti solamente, sorridendo:” Missi, piccola graziosa Missi”. Io ti dissi con calore, amore, disperazione e voglia di trattenerti: ” Ti vuole tanto bene, non andare, amore ” Tu sapevi sentire i cuori, e guardandomi oltre l’ uscio della tua casa mi dicesti:” Non preoccuparti mamma”. Salii di corsa i gradini per guardarti percorrere la nostra via: guardavi sereno il cielo brillante del meriggio inoltrato. Fu l’ ultima volta che ti vidi sulla terra in cui il mio grembo ti aveva portato e le mie braccia ti avevano aiutato in tutti i modi a percorrere. Nessuno trovò più per te e per me parole, dopo. Non quelle che tu meritavi, non quelle di cui io avevo bisogno. La tua terribile malattia allontana la comprensione. E la gente, oggi, nel suo inalienabile individualismo che porta fatalmente all’ ignoranza e alla malvagità non ha nemmeno le parole della pietas, dell’ umanità più elementare.
Amore mio che sento a me presente con spirito libero da tanto male, con la carne sana che io ti avevo donato e che con cura avevo nutrito, vorrei oggi trovare le parole giuste per consolare il tuo cuore che sento dolere per i teneri tuoi sogni che non hai potuto concretizzare sulla terra che pur ti apparteneva. Vorrei dire al tuo cuore che i tuoi sogni di fanciullino vivono in me , in tuo padre, in tuo fratello e ti prometto che farò in modo che vivano in chi verrà a far rivivere tutta la tua stanza che intatta attende. Se sentirò ancor fredda la tua mano che nessun sole e nessuna fiamma riusciva a riscaldare più, sappi che non ci sarà nel mio cuore la paura e l’ angoscia a offuscare la mia capacità di parlarti: troverò per te un’ infinito di parole leggere come le piume e calde come la rena baciata dal sole del mezzogiorno per avvolgere il tuo corpo infreddolito. Starai bene, amore mio, starai tiepido e felice accanto a me, e se anche non potremo giocare sulla riva del mare o inerpicarci lungo i sentieri odorosi di resine della montagna perché le mie forze non sono quelle del tempo in cui ti vegliavo e guidavo, starai accanto a me lungo il marciapiede della nostra via, mi appoggero’ al tuo braccio lungo i marmi lucenti del grande ipermercato dove accarezzo ancora i frutti che amavi. Parleremo, rideremo, chiederai i dolcetti che amavi, riempiremo di cibi confortevoli le nostre borse e aiutandoci riempiremo come un tempo la credenza per programmare le pietanze della settimana, pensando a dove farci portare dal papà la domenica seguente. Sei con me, sei qui. Lo sarai sempre. Lo eri gia’ prima che il mio grembo ti concepisse. Ho ritrovato il sentimento della tua cara presenza appena il tuo spirito ha lasciato il corpo sfinito. Da quando ogni mio correre nel mondo ha trovato requie, sento che anche il tuo corpo è presente, invisibile, inudibile, ma presente e vivo, capace di portare quel calore di cui la mia anima e anche la mia carne hanno bisogno. E non importa se talvolta il mio pensiero va alle sofferenze del passato, le tue, le mie, le nostre. E non importa se talvolta un gelo mortale mi prende le gambe, mi prende i visceri, senza che le medicine nulla possano fare. E non importa se , a tratti, mi prende improvviso il senso di un’ infinita tristezza per le letizie che non abbiamo vissuto. Presto tutto passa: basta che la chiara trasparenza della tua amata presenza s’ appressi a me. La forza della tua mano che ha conosciuto la Gloria di Dio mi solleva, mi ricopre di calde lane, mi riporta alla mia vita. Io non so rivestire di parole le lacrime che talvolta rigano brucianti il mio volto, ma mi basta pensare che la tua mano le raccolga, che le tue delicate dita accarezzino lievi il mio viso come già facesti tanti e tanti anni fa e il calore della vita torna in me, mi fa ancora strada. Amore mio, com’ è stata lunga e tortuosa la strada! Dimmi, ne manca ancora tanta per giungere alla panca di pietra che guarda il ruscello che scorre ancora accanto al muro della mia antica casa natia, per sedermi li’ ad ascoltare per un po’ il garrito delle rondini, il gracidio delle rane, il lieve sussurrare dell’ acqua e poi addormentarmi nel profumo della terra natale, nella luce cristallina del sole del mattino che mi vedeva già avviarmi a scuola. So che mi svegliero’ nello splendore dell’ eternità dove la tua anima già ritornò tanti anni or sono, dove la mia anima ritroverà tutta il sovrumano incanto dell’ attimo in cui ti posero per la prima volta sul mio petto. Ascolta le mie parole e gioisci, figlio.
Una lirica che richiama il desiderio di portare parole di cui l’ umanità tutta ha bisogno: per donare, per ricevere. Le parole di un poeta riescono sempre a penetrare la realtà fin nella sua più profonda piega e riesce nel contempo ad illuminare la realtà nella sua essenziale semplicità. Ciò che manca a troppa gente è la capacita di trovare le parole per leggere i pozzi neri della sua anima così come l’aridità del suo cuore. Sono le persone che sorridono , svagate e ridanciane, davanti ai selfies miserevoli che non ritraggono altro che la loro profonda malattia: comparire, esserci sempre, anche se il mondo ha perfettamente compreso il marciume colpevole che sorregge lo squallore della loro misera persona. Sono le persone della finta carità, della ipocrita benevolenza. Sono le stesse persone che hanno sempre saputo trovare solo blandizie per poveri stolti, che hanno usato le parole per fare del male ad innocenti nascondendole agli altri sotto il sorriso più infame. Sono le stesse persone che si cercano sui social delle frasi smozzicate, degli sciocchi squittii e delle infinite interiezioni che si scambiano in un tristissimo gioco di perfetti sconosciuti che non possono scrutare il profondo delle figurine che hanno di fronte, né possono trovare le parole per descriverne la bruttezza. Se il Signore avesse donato le parole dell’ Amore e dell’ umiltà a tutti, il mondo sarebbe migliore. Se il Signore avesse donato le sembianze della Verità a tutti, il mondo non sarebbe fradicio delle sue stesse lacrime. Maria Coianis riesce a generare riflessioni nuove ogni qualvolta rileggi le parole che il Signore ha saputo porre nel suo cuore.
All’improvviso un’ombra chiara attraversa la mia mente:le persone care vorrebbero per chi amano e soffrono un’infinità di parole, un’infinità di parole che arrivino all’anima, parole sottili come ago indolore, parole che arrivino lievi là dove l’anima brucia dolente e l’accarezzino con la levità di quelle brezze che sanno lenire ogni dolente arsura, parole che si fanno coperta che avvolge il cuore raggelato dalla solitudine in cui la sofferenza schiaccia impietosa. Ma le parole non sono questo, o perlomeno non solo. Le parole devono passare attraverso i sensi e il corpo che le soffre: le parole anche più belle e leggere possono trafiggere e far soffrire. Sì perché la felicità perduta, la gioia che non torna a bussare alla porta, le memorie che le belle parole riescono a trasportare nell’animo fin dai più lontani spazi del tempo, le parole che, nonostante la loro beltà riportano ineludibilmente e proprio per la loro bellezza al presente, alla vita che scivola inafferrabile verso il buio della malattia devono passare attraverso il corpo, oltrepassare i sensi per giungere là dove l’amore di chi parla vuole arrivare. Sensi, corpo, carne vivono di emozioni e le parole umane non possono conoscere quali emozioni compenetrano le carni di chi ascolta nella sofferenza. Maria Coianis si pone dunque in quello spazio di consapevolezza che solo la grande sensibilità dell’artista coglie: il limite della parola esiste e mai potremo superarlo.
Cercavi il mio ascolto alle tue parole dolenti. Volevi che io ti parlassi. Volevi sentire la mia voce di madre rassicurante e lenitiva del tuo affanno. Nonostante il dolore che mi stringeva il petto sapendoti sofferente e disperso, cercavo di donarti le parole più lucenti e chiare che il mio cuore cercava straziato fra i diamanti del passato. Cercavo le parole più usuali e consuete per riavvicinare alla vita la tua anima che inseguiuva dolorosamente incubi inconsueti.
Non accettavi l’ingiustizia e non rifuggivi il confronto con i miserabili che la praticavano anche se la loro brutalità ti schiacciava. Cercavi ancora, nella tua innocenza, di trovare persone che apprezzassero la tua capacità di essere ciò che pochi altri potevano essere.
Non riuscivi a capire che erano persone distratte e sovente lontane. Spesso cattive. Ma tu non concepivi la cattiveria ed io inutilmente cercavo le parole per farti comprendere che c’é e va accettata, osservata, lasciata in disparte. Volevo disperatamente farti capire che il mondo è fatto di miseria mentale e morale: le parole sincere del mio cuore non riuscivano a vincere la tua incredulità.
Quando il tuo corpo cedette irrevocabilmente alla tua malattia, vidi che anche la tua forza psichica, mentale, spirituale veniva meno e ti rifugiasti pian piano, ma irreparabilmente, in un tuo piccolo mondo fatto di poche cose, troppo poche per non capire che stavi scivolando nel dirupo aggrappandoti ai sottili fili di seta che comunque tessevi per sopravvivere e che ormai un vento invisibile spezzava. Gli altri non riuscivano a vedere, nonostante le mie parole con loro fossero chiare. Le mie parole non potevano combattere il muro di ignoranza e superficialità che mi circondava e non porgeva l’aiuto dovuto e pagato. Forse era malafede, lo penso oggi, in lontananza. Forse lasciarono che i fili leggeri di seta svanissero perché avevano sperimentato solo fallimenti, con la tua malattia. Chi fallisce incattivisce. Ti parlavo ancora di un futuro tutto da costruire, quando in un battito, tornasti al passato, all’eternità da cui eri venuto. Ti ho parlato ancora sì, ho cercato le parole più dolci per chiederti di aspettarmi ché voglio essere la prima a raggiungerti nella luce che abiti. Alle volte cerco disperatamente le parole per chiederti perdono: perdono per averti chiesto di guarire quando guarire era impossibile. Perdono per non essere stata dura e severa coi medici che gettavano la spugna. Trovai, sai le parole per affrontarne due: ad uno tirai in faccia l’inutile compenso che mi aveva chiesto mille altre volte, ma era anziano, forse consapevole che non aveva trattato con una stupida e tacque abbassando la testa. Trovai le parole per dire ad un altro che perdeva tempo, tempo prezioso, e badasse bene a quello che faceva perchè non avrebbe potuto difendersi dicendo poi che io non avevo fatto di tutto, non avevo ubbidito in tutto, ma era lui che pretendeva da te quello che non potevi fare per te e bisognava che lui, in tutta umiltà, lavorasse sul piano della consegna ai pochi curanti veramente competenti che finalmente c’erano. Parlò fra i denti, minaccioso nei miei confronti. Io ti assomiglio: non tollero ciò che non é giusto e gli espressi il mio sentire l’inutilità delle sue azioni, delle azioni di tutti coloro che ti avevano curato. Sentivo rancore. C’é e sempre e ci sarà sempre rancore per i limiti dei superbi che, forse, non tolleravano di presentare la loro sconfitta alla loro comunità.
Non ebbi nemmeno il tempo di svoltare l’angolo e m’avvertirono che tu non c’eri già più nella nostra casa in cui ti avevo lasciato con gli altri familiari. Non mi sbagliavo: eravamo tutti alla fine di una corsa sbagliata. Veniva consegnata ora a tutti la peggiore delle tragedie. Alla luce del sole. Nessuno poteva più nasconder nulla, cercar parole inutili o fasulle. Ma tutte queste cose che sono state ora tu le conosci , le puoi vedere in modo ampio, diverso da me e conosci ciò che correva nella mente e nell’animo di tutti. Vorrei trovare le parole giuste per dirti che so che ti dispiacque lasciare la vita anche se non potevi più vivere, io lo capivo, e l’ho sentito in me anche in quella terra di mezzo che unisce il sonno e la veglia quando tu m’appari per comunicarmi qualcosa. Non mi hai mai parlato le rare volte che colà mi hai raggiunta, tuttavia ho sempre sentito che eri venuto a prepararmi per qualcosa. E solo col passare del tempo posso poi comprendevo pienamente perché hai voluto incontrarmi. Avevi sempre ragione.Vorrei conoscere le parole per dirti di restare là fino a che la mia consapevolezza e i miei sensi risvegliati ti possono vedere, toccare, accarezzare. Ma so che queste parole per riportare a me la tua carne non ci sono, nessuno può conoscerle. Io posso solo trovare le ultime parole di una madre che aspetta, parole semplici, che , da madre ho sempre usato coi miei figli: “Torna quando vuoi, io sono qui ad aspettarti”.
Talvolta, quando guardo l’orizzonte che ormai di giorno in giorno si riempie rapidamente dei viola più intensi, dei turchini più blu mentre sbiadisce rapido il fuoco del tramonto, mi pare di sentire nel cuore un tenero frullio, simile a quelli che sentivo ogni qualvolta tu ti muovevi nel mio grembo. Sussurro allora le stesse parole che ti rivolgevo allora chiedendoti di nascere presto, mostrarmi le tue fattezze anche se erano già impresse nella mia mente,sentire il calore del tuo corpo che viveva protetto nel mio ché le mie braccia erano calde e grandi e ti avrebbero protetto ugualmente da tutto e tutti. Sul far di quelle sere lontanissime da questo tempo e questo luogo ti lasciavo ascoltare i gridi degli uccelli che cantavano la loro nostalgia per il sole morente, le grida più alte dei bimbi prima di rientrare al calore del desco familiare, il gorgolio del ruscello che scorreva argentino presso la nostra piccola abitazione all’ ombra del monte e che, sul far della sera, con l’ affievolirsi dei rumori del giorno, diventava più ciarliero e la sua voce più distinta e chiara. Erano tutte parole per te, parole per cullare il tuo sonno, parole per annunciarti un altro mondo che ti attendeva assieme a me. Avevo, allora, tutte le parole che una mamma raccoglie felice dalle stelle innumerevoli del cielo. Erano parole che uscivano copiose e leggere dal mio cuore felice, parole che appartengono ai tempi e luoghi felici della vita. Com’è difficile trovare le parole quando la vita ti porta a tempi e luoghi dolorosi, sconosciuti, inimmaginabili. Aspetto che il cammino di questi freschi tramonti antichi e sempre nuovi rallenti il passo per sentirmi avvolta ancora dal caldo soffio dell’ antica quotidianità che mi ha vista inconsapevole e serena, felice e gioiosa. Era un’ altra vita. Era un altro tempo. Era un altro luogo. Non so trovare le parole giuste per parlarmi e parlare delle tante vite, tanti, tempi, tanti luoghi che ho vissuto. Forse un giorno.
Vorrei la parola per raggiungerti gridando il nome del Luogo in cui ora ti trovi. Vorrei la parola per gridarti che certe volte non riesco a portare oltre il mio percorso qui, tanto lontano da quel Luogo la cui parola nessuno conosce sulla terra. Vorrei trovare la parola che ti dice ch’io amo coloro che tu mi hai affidato, ma che la sofferenza per la tua mancanza rende talvolta difficile averne la giusta cura. Vorrei trovare la parola per dirti nel modo giusto quanto ti sono grata perchè so che tu sei sempre loro vicino e vegli su loro anche per me. Vorrei la parola per indicare il nome esatto dell’affetto che tu provi per coloro che nella tua graziosa bontà hai amato, hai vegliato, ami, vegli. Nessuno più di me conosce quanto sapevi vegliare sui tuoi affetti, fossero di fratellanza, fossero di figlio. Vorrei trovare la parola per dirti di venirmi a prendere chè ho un bisogno indicibile di te. Vorrei trovare la parola con cui Dio chiama all’esistenza terrena per riaverti qui. Anche Lazzaro tornò alla sua casa. Vorrei trovare la parola per vederti risorgere anche se so che quella parola appartiene solo a Dio.
Vorrei trovare le parole giuste da dire davanti a chi ti ha fatto del male, parole come quelle che sapevi trovare tu che appartenevi alla schiera dei pochi Giusti che sapevano perdonare. Vorrei trovare le parole sincere che sempre sapevi usare anche per affrontare gli ignobili, i marci che mai potranno rialzarsi dal fango in cui giacciono. Per quanto fango gettassero addosso ai probi, tu sapevi allontanarti dall’ira e dalla vendetta, commiserandoli con parole che non sapevo come riuscivi a trovare dentro il tuo piccolo cuore ferito e saggio. Vorrei trovare le parole meticolose che sovente donavi dietro al tuo bel sorriso anche alla più inconsistente e banale delle persone. Vorrei conoscere le parole di cui sapevi nutrire la tua anima per affrontare il disagio che il mondo sovente ti arrecava. Tu conoscevi le misteriose parole che riescono di volta in volta a raggiungere l’anima senza ferire la carne. Le tue parole erano sempre soffi celestiali. Tu eri di materia celeste. Eri mandato per farmi conoscere l’amore più vicino a Dio. Non proferivi le orribili parole del rancore, dell’ odio, del dolore: li stringevi con forza dentro di te. E presto, me nonostante e nonostante tutte le parole mie supplici rivolte a Dio, hai trovato dentro di te le parole per entrare nella Casa di Dio. Vorrei trovare le parole per richiamarti qui, accanto a me. Vorrei trovare una sola parola, una sola parola che mi indichi la strada che i Giusti condividono.
Cerco, nel silenzio di meriggi adombrati da plumbee nubi, le parole per cominciare il dialogo con me stessa e portarlo alla luce del giorno. Non è facile imboccare il sentiero delle parole che occorrono su bianchi fogli per raggiungere l’anima che vuole ancora nascondere le sue piaghe dolenti. E mi trattiene, mi frena la mano. Ha paura di soffrire di più scavando ancora nelle sue lacerazioni la mia anima, che ha cercato infinite pezzuole per medicarsi. Geme ancora, vuole fermarsi ancora a guardare i baratri, i macigni, i dirupi su cui s’é troppo spesso schiantata, ivi restandosi a lasciarmi sentir bruciare persino il respiro in petto. E dunque voglio trovare anche io, come Maria Coianis vorrebbe fare per altri, le parole che arrivino al mio cuore, sì il mio stesso cuore, che palpita vibrante e bisognoso di comunicare al mondo le sue passioni, i suoi tormenti, le sue sofferenze, i suoi patimenti. Maria Coianisz non trova le parole adatte a trapassare la carne senza recare dolore. Il cuore é fatto di carne, carne che ancora sanguina. E le parole che pur ad esso s’affacciano impetuose non hanno tuttavia ancora la forza per arrivarvi diritte, acuminate, come frecce scoccate da arco ben teso, e trapassarlo questo mio cuore, lasciarlo dolere e uscirne rette e vigorose a portare la verità nel mondo, tra tutti coloro che attendono lo squarcio d’ogni velo. L’anima ancora tremante duole ad ogni ricordo, mi prende la mano , la trattiene ancora come a dirmi che sarà un percorso di dolore, di altro dolore. Li ho percorsi innumerevoli i percorsi del dolore, io. Il cuore ne conosce gli effetti. So che a poco a poco esso riuscirà ad aprire il varco e farà sì che le parole ormai obbligate, troppo a lungo taciute e troppo cogenti, si libreranno sul bianco e muto foglio in attesa. La mia anima si denuderà come succede prima o poi a tutte quelle anime piagate che racchiudono la più misteriosa delle sofferenze. La mia anima si aprirà come s’è aperta e denudata l’anima di Maria Coianisz. E come Maria Coianis, e come tutte le madri che devono proseguire il loro cammino prima d’esser chiamate, troverò in fondo alla mia anima denudata e riarsa la rugiada che la sostenterà lungo il sentiero. Non può che essere così, ne sono certa. Alla fine devo pensare che qualcuno ha portato comunque l’anima mia fino a qui. Qualcuno mi ha portata sofferente, ma ancora valente alla proda di questo giorno. Non lo ha fatto solo per me, ch’io sono immeritevole di tanto come ogni altro essere umano. Qualcuno mi consente di pensare ancora, di lavorare ancora, di parlare ancora, di soffrire ancora perché io possa essere d’aiuto a me che ancora sanguino e ad altri che dovranno camminare sugli erti sentieri del dolore. Maria Coianis ha ragione: non ci sono parole umane che possono lasciare indenni carni e cuore. Tuttavia bisogna aprire lo stesso la propria anima, rivisitare fino in fondo il vissuto. Solo la parola scritta da chi possiede l’anima lacerata e il cuore sanguinante potrà produrre la catarsi per sé e disvelare una dimensione diversa a chi vaga nel buio.
Maria Coianis chiede la parola per recare conforto all’anima dolente. Maria Coianis sa che ogni umana parola colpisce però le carni che soffrono al loro transito. L’anima vola oltre la carne. Vola nella sua dimensione misteriosa e divina, si nutre di essenze che non possiamo conoscere mentre la nostra essenza terrena passa invece attaverso lo snodarsi e il fluire delle parole. Le parole umane non possono giungere dove l’anima vola. L’anima ci appartiene, ma vive in quella dimensione che possiamo solo intuire o credere presente per atto di fede. L’anima tornerà all’Eternità, alla Divinità di cui é parte, portando con sé i suoi vissuti terreni che , forse, é scesa a raccogliere per comporre poi Altrove un disegno infinito, un puzzle in cui s’incastonano tutte le tessere perché tutti possano leggervi un giorno ciò che é il significato dell’Esistere, ciò che é l’Essenza,immutabile nella sua dimensione che qui non possiamo scorgere, ma fluida nel suo alveo sconosciuto. Maria Coianisz vorrebbe passare oltre lo spazio e il tempo per arrivare diritta all’anima che, qui ancora racchiusa nel suo involucro terreno, non riesce a librarsi per essere colà dove può trasparire e rilucere di verità e felicità. Maria Coianis vorrebbe trovare le parole per arrivare al cuore, all’anima che prigioniera del suo bozzolo soffre di solitudine come crisalide fredda. Nemmeno un manto di parole leggere come piume può giungere a scaldare quella crisalide silente e solitaria. Le parole trafiggono le carni, le lacerano spesso, e non giungono dove la sete arde e l’anima chiede ristoro. Quante volte nella vita passiamo attraverso questo guado, incerti se proseguire o ritornare indietro, incerti se parlare o tacere, incerti e spauriti perché ogni scelta potrebbe far soffrire e soffriremmo anche noi, una volta di più, una volta ancora perché non abbiamo saputo trovare la strada giusta per chi amiamo. Forse é vero che ogni uomo è solo, qui sulla terra, e nessun gesto, nessuna parola può arrivare ad accarezzare la sua solitaria esperienza, il suo solitario percorso. E presto calerà la sera ed ognuno porterà via con sè il fardello della sua esperienza che un tempo lontano gli pareva lieve. Strada facendo il fardello si é invece appesantito di sofferenza ed ha piegato e distorto il nerbo che sosteneva il miracolo del percorso. La presa di coscienza di essere qualcosa di più e di diverso da quello che sentivamo e che il mondo ci diceva d’essere, ha condotto alla nostra consapevolezza la presenza in noi non solo di un io unico e smisurato, ma anche di un’entità che fin da piccini ci hanno insegnato appartenerci e guidarci lungo il cammino : l’anima, che dopo essersi fatta strada nel nostro io, ci rende partecipi di un’attesa velata di malinconia, se non di un gelo dolente, proprio quel gelo che nessuna parola al mondo scioglierà. L’Anima ha bisogno del suo Luogo per riunirsi ad un disegno eterno che aveva abbandonato, come fa la carta quando scivola dal mazzo. Sarà una sola la parola che la salverà . Sarà l’unica parola che noi non conosciamo,l’unica parola di una Volontà che la richiamerà a ricomporsi nell’eterno mandala cui era sfuggita cadendo nel tempo e nello spazio, soffiando la vita,la conoscenza, la coscienza in un corpo che le sarà compagno in un’avventura straordinaria che si chiama Vita,una Vita che prima o poi si perderà confusa nel suo elemento fatto di creta. L’anima allora, ormai prigioniera, lascerà infine quella creta che svanirà nel soffio immenso della materia e ne porterà l’impronta nel Disegno che tutto sovrasta, tutto contiene.
Le mani giunte a cercare le parole che non riesco più a trovare per pregare. Le mani a coppa per raccogliere la fresca acqua di fonte con cui dissetarsi e lasciar volare nell’ ampio respiro della frescura il malessere che sento . La tua mancanza fisica si fa sentire su di me come l’ onda d’ urto che accompagna la piena del fiume. La dispersione nel grigio deserto di un’ alba d’ autunno in cui ogni creatura ammutolisce in attesa di un lungo tempo che verrà, scuro, incerto, falsamente caloroso. Non riesco a trovare in un solo verso della bellissima lirica di Maria Coianis la parola che squarci in qualche modo questo pesante sudario che avvolge la mia anima e con essa tutte le cose che mi circondano. Un antico amaro sentimento di cose perdute, di malinconia inguaribile, di rimpianto doloroso per la tua piccola vita non vissuta mi stringono il respiro in una morsa di dolore, mi tolgono ogni forza. Non sono queste che faticosamente scrivo le parole che acclarano il mio mal di vivere. Non ho le parole per raggiungerlo il male che avvita l’ anima sul suo sentire. Non ho le parole che sciolgono i suoi nodi e con essi svolgano quelli del respiro che quasi non esala dal petto oppresso. Ritorno a più riprese sulla lirica di Maria, cercando disperatamente di appropriarmi di quella serena dignità che Maria esprime nella poesia, una serenità che solo l’ adesione al Disegno, solo l’ accettazione del Disegno possono donare. L’ anima di Maria Coianis è riuscita a volare là dove l’ anima mia ancora non può. Le mie carni sono trapassate da infiniti aghi di dolore per l’ ultima morte di una madre, una madre che non reggeva più lo schianto che l’ aveva divelta tanti anni or sono. Ha cercato anche lei le parole per lenire il dolore immenso, raccogliere i pezzi dell’ anima , riavvicinarli, ricreare una qualche armonia nella sua identità brutalmente spezzata. Hanno cercato tutti per lei le parole per aiutarla a ricomporre un mosaico. Mancava il pezzo più importante, ed era ormai insofferente e maggiormente dolente alle parole che la volevano trattenere ancora. La sua sepoltura è collocata nel vuoto che accoglie suo figlio. Nessun nome, nessuna foto la indicheranno su quel marmo travertino che lei tanto curava e riempiva di candidi gigli, sempre, sempre. Alle volte penso che solo una poetessa del calibro di Maria Coianisz avrebbe potuto aiutarla con le splendide poesie attraverso cui ha saputo tornare a sé, alla sua casa, alla sua vita, ai nuovi dolori. La madre di quel bel giovanottone che sooride in foto con tenero piglio ancora infantile non è riuscita a vincere lo strappo, la frattura interna che s’ allargava sempre più in lei, lasciandola via via sempre più staccata dal mondo. Infine non è riuscita ad afferrare i pochi pezzi di se’ che le tante fratture, inesorabilmente, crudelmente allontanavano l’ uno dall’ altro. Non esistevano più parole per lei. Lei non trovava più parole per sé né per altro da sé. Sul marmo travertino non comparirà nemmeno il suo nome : è la volontà di una madre che non ha concepito sé stessa senza il figlio. Ha saputo trovare le parole per gridare infine che lei ha vissuto per suo figlio,ha vissuto nel ricordo di suo figlio, vivrà ora per sempre accanto a suo figlio, in suo figlio : il mondo non dovra’ neppure nominarla perché lei ha posato il suo nome nel cuore del figlio. Tutto il resto deve rimanere lontano . il mondo resti pure ignaro del suo passaggio terreno perché lei era la madre di un figlio che il buio della terra cullava da troppo tempo.
Annaspo smarrita, forse anche adirata contro un mondo che continua a ruotare su se’ stesso indifferente. La mia anima duole, cerca per sé e per tutto questo le parole. Ma, come dice Maria Coianis, le parole che riesco a trovare mi trafiggono la carne, la lacerano e non possono lenire l’ angoscia, non possono sedare il tormento silente e acuminato che mi stritola l’ anima.
Il grigiore della nebbia che adombra ogni cosa. L’ acre odore di questo sudario fatto di velo bagnato. Tornare con la mente e l’ anima alle grigie giornate in cui stavi al caldo, nella tua stanza, e studiavi, scrivevi, componevi, suonavi note leggere che volavano dritte al mio cuore rattrappito dall’ angoscia del tuo male incoercibile e duro come la roccia dei monti che ti hanno dato i natali. Le note chiare, scivolando argentine nella nostra casa mi rassicuravano, mi dicevano che eri sempre con noi, eri al caldo, al sicuro. Quanto avrei voluto allora correre da te, figlio, e trovare le parole per parlati di una possibilità indolore per te,facile per te, di guarire, guarire il tuo corpo e guarire la tua anima. Mi tratteneva implacabile la consapevolezza che io non riuscivo ad elaborarle come si doveva quelle parole; mi tratteneva l’ implacabile consapevolezza che sarebbero risuonate forzose, false alla tua immensa capacità di capire le cose, capire te stesso, capire me. Mi trattenevano, implacabili le parole di curanti che oggi so in quanti e quali errori incorrevano allora. Mi dilanio oggi nel dubbio che, nonostante tutte le mie remore per la mia inadeguatezza, avrei dovuto afferrarti per le mani, dirti ciò che mi premeva in gola anche con parole inadeguate, e gridare, sì, gridare di seguirmi ancora, cercare ancora con me un’ ancora che da qualche parte stava, doveva esserci. La mia anima è strappata in mille pezzi per aver taciuto obbedendo , per non aver taciuto quando, presto, m’ accorsi che il tuo percorso andava in una direzione spaventevole. Spaventata a morte, non seppi però spaventare i curanti che inizialmente ti osservarono e dicevano che sarebbe passata.E così, tremando in cuore, speravo. Spaventata, pur se fiduciosa, non seppi capire più avanti i curanti ai quali io ti avevo portato percorrendo al volo chilometri e chilometri di strada volando sull’ asfalto umido d’ un grigio meriggio afoso di giugno. No, no sapevo allora che era solo una illusione quella tua rapida, troppo rapida ripresa. Certo, le mie parole non sono approssimative se dico che un intuito inspiegabile mi stringeva sempre il cuore, nonostante il periodo di tregua dal male, un periodo che rassicuró tutti, ma non me. Non so perché non riuscii a portare adeguatamente a quei curanti il mio inesprimibile timore, come non so perché essi, conoscendo il male, si siano accontentati di un traguardo. Non lo so. Non capisco e oggi non ho le parole per interrogarli. E comunque non serve interrogare piú nessuno su te. Penso con disperazione che avevi bisogno di una madre che sapesse trovare le parole, tutte le parole per esprimere i suoi dubbi, tutte le parole che sapessero acclarare i tuoi modi di essere e porti. Non posso andare col pensiero a tutte le parole che ancora poi ho portato ad altri curanti. Non posso pensare a tutte le sconosciute parole che tu hai dato ancora ai curanti. Tutte le parole di quel nostro tempo sono state inutili,inutile è stato trovarle e limarle con cura per meglio acclarare. La tua malattia era grigia, velata, sfuggente, inafferrabile come questa nebbia che lascia sfumare nell’ indistinto tutte le cose che avvolge. Trovai chiare le parole per supplicare e quelle per pregare. Il grigio della nebbia che avvolge leggera e tenace i cipressi del giardino su cui il mio sguardo si posa sempre più stanco, soffoca il mio pianto, ricaccia in meandri inaccessibili le parole che vorrei trovare per urlare al mondo, a Dio, il mio dolore sempre presente e la tua lontana sofferenza. Ma leggo e rileggo: nemmeno la grandezza coraggiosa di una poetessa come Maria Grazia Coianiz può tessere, talvolta, le parole occorrenti.
Può uno specchio lucente di mare che batte incessantemente sulla battigia con la luce sua chiara che illumina l’ultima cresta dell’ onda che muore, sostituire lo specchio che quotidianamente riflette il volto malvagio di chi mai ha avuto e mai avrà Bellezza, Bontà, Dolcezza,Meraviglia? Il volto di chi non riconosce il Creato poiché ne colpisce le creature piú fragili?Inutile cercare di scavare tra l’ aleatorietà e l’ incertezza per tentare di ricavare una risposta che lasci aperto lo spiraglio alla possibilità.L’anima che sprigiona volontariamente il male è tale perché così è sempre stata e tale rimarrà per sempre, avvolta da miserandi brandelli carichi di invidia e crudeltà. Invidia contro chi ha accanto a sé l’ amorevole madre e il protettivo padre mentre lei,sola, s’aggira fra avidi tentacoli di piovra. Avanza temeraria e sicura di sé nella società, convinta d’ esser donna per aver appreso cos’è il lupo. Crede d’esser donna consapevole e sicura se inganna il giovane cupo, solitario, negletto. Crede d’ esser signora matura e magnanima tornando all’ovile dell’umiliato,da tempo apprestato, e porto che crede possa restituirle dignità. Vi porterà invece tempesta e di tempesta sconvolgerà la via prima pacifica e generosa, rallegrata dalle garrule voci dei bimbi al gioco. Lo specchio della tetra casa riflette sempre un volto senza età né senso, famelico di fama, famelico di danaro, invidioso della pulizia altrui, dell’amore altrui, della fatica onesta degli altri. Lo specchio riflette impietoso un’insoddisfazione pervasiva, un narcisismo periglioso, una vita mai vissuta nell’anima, perduta nei meandri di voleri altrui. Lo specchio vede, ma non ha la parola della favola antica per arrivare oltre la maschera e cercare di vincere la durezza del nocciolo arido. Non é favola questa! Il compagno, sempre più flaccido e imbelle di fronte a smania insofferente, al sobillare contro chi viene invidiato al punto da volerne l’ annullamento morale e fisico,il compagno sconnesso nello spirito e nel corpo perpetra barbarie contro inermi cercando di scaricare cosí, come pure nell’alcol, la sua limacciosa rabbia per il ruolo che vive nel mondo: un uomo che tutti deridono, compatiscono e detestano al contempo perché segue stolido un’ insoddisfatta assetata di dominio, un essere che cerca di nascondere ogni traccia della sua vita e della sua anima macchiata dietro sorrisi angelicati e maniere affettate,sorridenti,straboccanti inutile affabilità. Ride, sorride, celia da vecchia e adusa maliarda fra fiori, pergoli,ricolmi calici,cucina da gourmet, scollature, gioielli… Ha colpito gli inermi innocenti la ridanciana e ride ancora perché queste sono le sue squallide vittorie. Non sa vincere altro. Vive tra i suoi pari.
Maria Grazia Coianiz chiede parole per consolare l’ anima. Il Cristo ha chiesto di perdonare il nemico peggiore. Vorrei trovare, oh se lo vorrei!, la parola che in un battibaleno cancelli tutto il dolore arrecato empiamente. Vorrei, oh sì quanto vorrei, trovare la parola che plachi la rabbia che ho contro me stessa per non essere riuscita a fermare la furia che ha colpito ferinamente col suo comportamento e le sue parole i teneri steli delle creature che s’ affacciavano appena alla vita e ai rapporti sociali. Vorrei, oh come vorrei, trovare le parole che arrivino al cuore di chi ne è sopravvissuto. Vorrei parole sagge e leggere,le parole che da una vita cerco ovunque, nei silenzi profondi delle notti che non dormo, dei monti che percorro fino alle cime, degli oceani cui m’ affaccio per scrutare l’ infinito, presso le persone piú generose e lontane dall’odio che ammorba il mondo e ha rattrappito me. Ma non le trovo quelle parole, non ne rinvengo una sola e chiudo nel cuore l’infinita disperazione, e cerco inutilmente,ben lo so,di allontanare le domande da chi talvolta mi guarda interrogativamente facendomi comprendere in modo tacito di volere la verità tutta. Le parole della verità possono trapassare con violenza brutale le carni e le anime e portare ancora terribili dolori in cuori già dolenti. Col dolore non puoi misurarti: mai potrai sapere quanta e quale forza negativa può sprigionare in te. E lo fa inaspettatamente.
Vorrei la parola, la parola che cancella ogni male. Il male da te tanto patito,povero cuore piccino fatto di dolcezza e sensibilità infinite.
Vorrei la parola per riportare te, che non sei più, al punto zero del tempo e rifare con la consapevolezza di oggi il percorso: mi terresti ancora per mano.
Maria Coianiz chiede parola leggera che riscaldi l’ anima fredda.
La mia anima è gelida, racchiusa da uno strato di ghiaccio granitico che lunghi anni di angoscia e dolore vi hanno avvoltolato intorno pian piano,impercettibilmente,inesorabilmente. Il gelo della morte mi duole. Stringe,qual morsa impietosa,la carne. Stritola con mani d’ acciaio il cuore. M’ allontana talvolta,ferale,anche dai momenti belli. Mi riporta, aguzzino crudele,al ricordo del calore che solo la presenza di tutti i cari gioiosamente riuniti attorno al desco profumato di pietanze semplici curate con amore sapeva darmi. Nulla chiedevo piú di questo io! E tanto faticavo con onesta laboriosità per garantire il necessario alla mia famiglia.
Vorrei la parola illuminata che sa dare un senso chiaro e definitivo a ciò che famiglie unite e laboriose hanno patito a causa di esseri bradi, presi da incomprensibile insania, lontani da sé stessi, lontani fra loro, lontani da Dio, lontani dalle loro famiglie, lontani dall’umanità. Non è, né mai verrà per esseri di tal fatta il tempo di specchiarsi nell’ onda luminosa e placida del mare, nel lago cristallino, nel fiume limpido, nella fonte linda. Il loro unico specchio sarà per sempre quell’ oscuro oggetto appeso al muro di una casa di fango. E’ macchiato indelebilmente quello specchio che occhi biechi e bramosi guardano senza posa fissando le tenebre della loro anima.Un’anima superba ed esaltata, avvinghiata a Lucifero,un’ anima che requie non può trovare perché sempre alla dannata ricerca di plausi, consensi, ammirazioni vuoti d’ogni senso e verità. Mai capirà il tronfio e cieco essere che tutti i giusti e veri hanno di fronte, ben presente, la sua reale sembianza,imbrattata e fasulla. Non trovo né voglio trovare le parole per parlare a chi è obnubilato dal suo ego morboso. E questo essere dall’ego spropositato e selvaggio, ne sia pur certo, mai troverà innocente battigia ad accoglierne i passi,né mai i suoi passi potranno attraversare invisibili la sabbia dorata della spiaggia sulla quale giocano sereni gli innocenti: le sue orme lascerebbero riconoscibili nere impronte di pece avernale e buche profonde ché l’anima tracimante mota ha financo soggiogato ed appesantito fatalmente il corpo. Né questo essere potrà mai passeggiare nella leggiadria del lungomare soleggiato ed incantevole dove le belle donne appoggiano la loro mano gentile e lieve sul braccio di cavalieri onorati che le sanno amorevolmente guidare fra lo scampanellìo delle carrozze luccicanti dei tempi andati. E’ brutto il suo volto menzognero, pesante di falsità la sua mano,inceppato il passo impedito da immemori inganni, e il suo cavaliere non si regge piú in piedi. Se le anime belluine soffermassero di troppo lo sguardo sullo squarcio di un mondo tanto amabile,ancor probo,ancor per bene, quel mondo scomparirebbe per lungo tempo, forse per sempre, ché basta il fiato sgradevole degli scellerati a portar rovina e distruzione, lo sappiamo bene tutti. Lo sguardo ingannevole dell’essere che mai si stanca di volere tutto sta cercando gli antichi sodali ancor ivi occultati,i mėntori scivolosi che dietro a quel lungomare amabile e garbato si nascondono, sempre pronti a farne porta di nuovo disfacimento, nuovo inverno senza fine, nuovo gelo. Ma molti,con me,non accetteranno un altro inverno senza più veder la primavera.
Non ho la parola per stanarli, ma ho forze indicibili per combatterli. Troveranno un’anima che,come dice Maria Coianiz, nessun ago è riuscito a ricucire passando indolore tra carni sbranate.
Essi troveranno un cuore su cui tante persone buone non sono riuscite a convertire le loro sollecite ed innumerevoli parole di consolazione in calda coperta di piume che avesse il potere di sciogliere il gelo di morte.
Donami Signore la capacità di saper vedere. Donami Signore le parole che a quel tempo occorreranno.
Vigilo e attendo perché solo io saprò frantumare inaspettatamente il bozzolo di ghiaccio.
Ti sentivo vicino. Nessuno sguardo, non un eco della tua bella voce. Non ti ho visto, né udito amore. Tuttavia mi sentivo sempre vicina a te. Un sogno : il paese che mi ha vista piccina. Mi sono ritrovata presso alti alberi dal fogliame verde. Emanavano un antico profumo di bosco, di calore e, allo stesso tempo, di freschezza. Un’ intensa e improvvisa sensazione di benessere. Mi svegliai e sentii accanto a me la tua cara presenza. Sentii che il male incomprensibile che mi attanagliava da infiniti giorni avrebbe lasciato le mie carni. Il chiarore del giorno mi portò tuttavia nella dura realtà. Ti sentivo accanto,una presenza austera, ma ferma, attenta. Da me stessa compresi quel giorno cosa fare. Nel volgere di poche ore mani competenti mi accudirono con prontezza.E sono qui, ancora qui, dove non sento la tua bella voce, né posso guardarr nella luce dei tuoi bellissimi occhi verdi. Ma il calore della tua presenza lo sento. Sei sempre con me in un modo che né io, né nessun altro al mondo potrà mai spiegare. Ho lucidato il tuo pianoforte, come ho sempre fatto, le cornici argentate delle nostre foto, ho arieggiato la tua stanza al primo sole tiepido di marzo che tanto amavi per le sue pratoline, le viole, le primule. Mi sono mossa pian piano sai, sedendomi sovente a osservare le immagini e lasciar volare i ricordi. Tu lo sai che un tempo pulivo tutto rapidamente, arrossandomi il volto, mentre i capelli mi si arruffavano in testa. Tu ridevi vedendomi così e, da bambino, mi dicevi che assomigliavo a un riccio, mentre da grande mi dicevi che assomigliano ad un’ Erinni. Sapevi tante cose!Ti piaceva lo studio, era la tua vita. Poi, pian piano, tu e noi comprendemmo che la malattia ti impediva di studiare. Tu ed io ci guardavamo sovente muti, ben sapendo cosa ciò significava per te. La lotta contro il male si intensificò, ma i risultati si affievolivano sempre più. Quanta disperazione! Quanto dolore! Ora tu cammini nella pace. Mi stai sempre accanto, ti sento. So che vegli su noi ed io ti chiedo di aver cura maggiore per chi deve ancora camminare a lungo. Dammi la mano, amore mio, ché ora chiuderà la tua stanzetta nel cielo e le scale per scendere al piano sono purtroppo faticose per me. Che strano: il male aleggia a lungo e nessuno lo vede o capisce. All’ improvviso piomba su di noi, aggressivo, mordace, dispiegato in tutta la sua violenza, mostrando tutta la sua pericolosità che spesso non lascia scampo. Non accetto, amore mio, non accetteró mai. Le malattie, come le guerre e gli incidenti non dovrebbero esserci. Basterebbe la morte per vecchiaia. Dammi la mano, amore mio, aiutami ad andare avanti nonostante tutto.
Avrei le parole, non tutte perché il fondo nero del dolore non ha parole, per narrare, per urlare al mondo il dolore che provo quando sento la mancanza della tua fisicità, dei tuoi passi, della tua splendida voce che sapeva acclarare tante cose a tutti, dei tuoi sguardi posati sul mondo, sulle persone, della tua pazienza nel sopportare le incomprensioni degli altri, delle tue prodezze di bimbetto felice dell’ amore che ti circondava, del tuo affetto profondo per tutti i tuoi, della tua timida e potente voglia di fare amicizia, di quanto ti ferivano le cattiverie degli altri. Avrei tutte le parole per dire di te, del tuo star male, delle tue dolorose cadute, delle tue alate risalite. Avrei le parole, sì, tante, copiose fluenti. Un fiume in piena che a tratti passa su fondali spaventevoli, a tratti scorre tutto argentino baciato dal sole. Avrei le parole, tante, infinite parole. Ma il mondo le ascolta? Oppure scorrono come foglie disperate sospinte lungo la candida tua pietra dal gelido soffio del vento d’ inverno? Il mondo vuole ascoltare il dolore, l’ amore, la gioia, la disperazione? Avrei tante parole quante sono le stelle dell’ infinito, ma esse trafiggono le carni prima di giungere al cuore, prima di volare con l’ anima. Gli esseri umani preferiscono non sentire il loro cuore, preferiscono pensare che non c’ è un’ anima che li avvolge ed accompagna. Le mie parole si sfaldano come la creta disseccata dai venti del nord : essa si spezza senza far rumore, scivola, fugge in mille frammenti rapita dalle folate imperiose. Esse, mute, impolverano l’ aria e vanno lontano a posarsi chissà dove. Eppure io continuerò a parlarti, amore mio. Non posso ferire la tua carne. Le mie parole le raccoglie la tua anima. Le mie parole emozionano il tuo cuore che batte ancora col mio. E io sento il fluire dell’ amore che nulla può cancellare.
Sentire nella carne il dolore che non ha parole. Sentire che la madre non può vivere quando ha perduto un figlio. Sopravvive. La cercano smarriti altri figli. Resta. Sentire il dolore di Alessandra nel proprio corpo. Sentir stringere la vitalità in una morsa ferale, gelida. Non ha parole questo dolore. Cala greve col corpo che ha ceduto nelle nere viscere della terra. Non ci possono essere parole per Alessandra e per tutte le madri amputate dalla violenza di una lama pesante e fredda. Era giovane, alta, i lunghi capelli color miele ondeggiavano piumosi sulle esili spalle, gli occhi verdi cangianti di mansueta cerbiatta. Un’ ondata di orrore l’ ha travolta per sempre. Ha resistito, Alessandra. Non ha cercato parole per urlare il dolore che la stritolava. Era consapevole che non esistono parole per precisare, acclarare, partecipare agli altri il macigno immenso che la schiacciava. Lei era riservata ed essenziale. Ascoltava solo sé stessa. Ha ceduto infine, Alessandra. Forse ha valutato che aveva insegnato la strada a sufficienza. Ha chiuso gli occhi che guardavano mesti da tanti anni uno strappo senza fine. Li aprirà nella luce calda di un riso piccino che finalmente potrà toccare ancora. E sarà per sempre, Alessandra. Adesso cammini con chi hai bramato tanto nelle lunghe giornate faticose e nelle lunghe notti dolenti. Sei arrivata, Alessandra. Non avevi parole. Adesso le parole non servono più. Le parole adesso trafiggono l’ anima di chi ti pensa, di chi ascolta la narrazione della tua sofferenza. Vorrei trovare le parole esatte per dire di te, ma non ho le parole, non le trovo in me. Forse qualcuno le nasconde alla mia mente affinché non rechino più dolore di quanto già non gravi. Vorrei le parole per parlare di tutte le madri che hanno sofferto il dolore innominabile, ma esse mi sfuggono come le onde del fiume che lo sguardo cattura dall’ alto ponte.
Che possono dirsi due donne che l’ obiettivo impietoso di una mano distratta coglie sullo sconnesso marciapiede di una città vuota e afosa? Due donne che non sanno più dove portare la loro squallida esistenza che d’ altro non sa riempirsi che d’ eventi modaioli, giullareschi, penosi. Il vuoto stringe esistenze brute che dal margine cercano di portarsi al centro fra vacui fiumi di parole ed azioni incogrue. Nulla e nessuno potrà cancellare il male che la loro esistenza dannata trascina. Nulla e nessuno potrà riportare al mondo
ciò che malvagità ha portato nel dolore e nella malattia. Lo sguardo del mondo scruta arcigno l’ ipocrisia che ormai non trova scampo. Solo biechi cenci circondano chi di macchia sacrilega s’ è macchiata. Sei sola, donna che mai donna è stata. I tuoi figli stessi rinnegano il tuo nome e nascondono il nome del padre che padre mai è stato. Un inetto, mentecatto errabondo, sconfitto già prima di averla da una donna che lo usò ed ancora lo usa nel vano tentativo di riuscire a dare una parvenza di normalità al proprio dannato errabondare. Quali parole possono mai scorrere fra due donne che in realtà nulla sanno l’ una dell’ altra? L’ una bara da sempre. L’ altra non si rende conto del groviglio bestiale che ha di fronte. Non serve dire di più. Guardatele e ne avrete conto. Le parole di tutto il mondo non possono dire di tutti i pozzi neri che ci circondano. Né serve dire. Basta sovente osservare. Cercare nelle profondità del sentire le parole è talvolta ingiusto: non basta il verbo a significare l’ ingiuria e il sacrilegio. Il male fatto lo hanno patito gli innocenti. Essi sono stati colpiti volutamente. Mai obbrobrio fu più iniquo. Parlano trovandosi due donne nell’ afosa città. Non curarti più di loro. Non sono mai state. Mai rinasceranno. Le parole del mondo sono lontane da queste derelitte. Vanno senza meta sulla zattera che le trascina senza posa. Non hanno parole umane. Non intendono parole umane. Non sono.
Le parole volano nell’ aria,strisciano sulla carta, s’ imprimono labili sugli spazi immensi del web. Ruotano leggere,a volte; pesanti macigni,a volte. Le rincorriamo per carpirne l’ essenza. Ma è destino dell’ essenza sfuggire. L’ essenza sfugge come il baleno che illumina fulmineo le oscurità del temporale. L’ essenza sfugge come il profumo del mirto selvatico che si nasconde tra i confusi cespugli della macchia. Vorrei trovare le parole della festa che verrà a rallegrarci. Ma nessuna parola può esaltare lo splendore della Resurrezione. La Resurrezione illumina le menti e riscalda i cuori: è un’ emozione, è un’ esperienza interiore fondante, è un topos dell’ anima. Chi ci precede nella Luce è già risorto. È intorno a noi e aspetta la nostra Resurrezione. Allora ci prenderà per mano. Sarà l’Eternità. Le parole non possono dire le cose che non sono di questo mondo. Ma possono socchiuderne l’ uscio.
Nessuno riesce a trovare le parole quando la lama gelida e pesante della morte s’abbatte sul corpo della madre. E’ così piccola e smarrita quella donna che un tempo fu grandiosa e bella. E’ così minuta e fragile, ritta sulle esili gambe velate di nero, lì ai piedi dell’altare dove hanno posato la bara della figlia strappata al suo amore. Anche il celebrante fatica a trovare le parole. Egli conosce lo strazio delle madri mutilate dalla sciagura. Tutti cercano di consegnare alla madre muta e gelida almeno un tenue sorriso cercandole gli occhi bruciati dal pianto. E’ giovane la madre, ma molti capelli si sono perlati di bianco durante le lunghe notti di veglia dolente, durante le angoscianti giornate passate a parlare ancora, sorridere ancora alla figlia che ormai cedeva di ora in ora al destino. Tutti temono che una sola parola, una pur piccola parola possa trafiggere quel cuore di madre tanto martoriato. Il tempo è sospeso tra la madre e la bara. Niente fra le due realtà. E il tempo della fiumara deve ancora arrivare, quel tempo in cui ogni luogo noto, ogni persona nota porteranno alla mente ricordi ed emozioni. Tutto il corpo della madre ne verrà trafitto e straziato. Sarà un tempo senza fine.
A tratti, lungo lo svolgersi del giorno, i visceri raggelano. Pare che il sangue lasci le vie che conosce. Le membra soffrono un tremito che nessuno percepisce, per quanto ne lamenti l’invasività ai curanti. Una morsa gelida stringe il corpo intero. Sovente fatico a muovermi come se denti aguzzi stringessero le carni. Madida di sudore cerco di salire le scale che portano alla tua stanzetta. Non riesco ad alzare le gambe. Cerco inutilmente le parole per spiegare. Le rincorro nella mia mente, ma quando volano nell’aria esse evocano solo immagini approssimative, sensazioni imprecise. Non trovo le parole, non trovo le parole per dire il dolore che ormai inficia la mia fisicità. Il dolore agghiaccia tutto il mio essere, mi avvolge in un manto stretto, bagnato di neve. Vorrei essere con te, tenerti per mano, camminare sui prati sentendo il calore del sole fin dentro il cuore. E con te correre e saltare ogni ostacolo lungo il cammino. Come un tempo. Come una vita fa. Come solo ieri. Come adesso che la mia mente mi vede accanto a te, bimbetto, fanciullo, giovinetto. Il passato scorre limpido e rapido come l’acqua dei ruscelli che stringevamo inutilmente fra le dita all’ ombra dei boschi della antica magione che tuo padre ti fece amare intensamente. Tante immagini in un fremito che chiamano battito di tempo. Sperimento sovente la sensazione della mancanza del Tempo. Il Tempo è un modo di percepire, è vero. Tu e la tua vita, tu e la tua morte, io e la mia vita, la vita e la morte di tutti sono nel momento che la mente le attraversa. Non trovo le parole per dire ciò che sento e penso. Vorrei le parole per raccontare. Ma la parola non può entrare in tutti i luoghi che la mente esplora.
È così fallace il giudizio della gente. La gente si ferma alle apparenze, alle maniere, al qui ed ora, alle parole studiate, al riflesso sociale. Nulla di ciò che abita il fondo dell’ anima, di ciò che alberga nel cuore, di ciò che nutre la mente viene raggiunto. Elementi sottili e invisibili guidano le azioni, ma ai più essi sfuggono, come sfugge dalle dita il filo impercettibile e avvolgente della ragnatela. Chi agisce nel male opera con dita sottili nell’ ombra, l’ ombra che il semplicismo o l” interessata malafede gettano rapidamente sulle nefandezze. Non scorre rapida e risanante e argentina l’ acqua in guisa d’
improvviso e provvido ruscello sulle azioni nefaste che gli ipocriti hanno compiuto facendo scempio degli innocenti. Nulla risanerà mai ciò che essi hanno perpetrato sugli innocenti, Chi colpisce l’ innocente non otterrà perdono, né qui né Altrove. Il Cristo gridò la loro morte eterna condannandoli a gettarsi con la macina al collo. Nemmeno il Cristo trovò per questi abbietti una sola parola di misericordia. Come trovare noi le parole per ostoro? Vorrei le parole per raccontarli, vorrei le parole per definirli, ma non ci sono parole per chi ha colpito nel cuore dell’ innocenza. Nessun evento della loro squallida vita, nemmeno il più lieto, li renderà gioiosi. Costoro sapranno sorridere, sapranno alzare il calice, sapranno spendere parole di circostanza, ma il loro cuore resterà arido, occupato per sempre dal male fatto e proteso all’ ideazione oscura e ghignante del male da fare ancora e ancora. Non vi fu infanzia innocente per costoro, non vi fu giovinezza allegra e animata dai fervidi colori degli ideali che dispongono verso il futuro. Per costoro solo un infinito, e pesante, presente di invidia, ipocrisia, malevolenza. Costoro sono l’ incarnazione dei Mali che ogni essere umano cerca di evitare lungo il cammino. Quando essi colpiscono, le vittime saranno annientate. E coloro che sanno lo saranno parimenti ché il Male stordisce ed impaurisce ciascuno. Come fa l’ oscurità con gli agnelli. Nessuno troverà mai le parole giuste per raccontare di tanto. Non ci sono parole per catturare le nere ombre. Non ci sono parole per afferrarle, fermarle, estirparle, dar loro umana forma, capirle, portarle alla vita. Esse viaggiano nella cupezza della morte eterna.