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25 novembre: la testimonianza di una donna vittima della violenza del marito

Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la storia di una nostra vicina, per quattro anni maltrattata dal proprio uomo. "Tu non sei niente, non vali niente e senza di me non farai mai niente. Sei il nulla da sola"

25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Quando si parla di violenza sulle donne, la mente vola a Paesi lontani, a matrice islamista, dove sono vessate, represse, prigioniere delle loro famiglie, della loro comunità, del loro Stato. Donne costrette in casa, donne picchiate, bastonate, lapidate per un bacio, una minigonna, financo per aver parlato. Può saltare alla mente qualche isolata realtà rurale, dove ancora i diritti sociali sono lontani dall’essere assorbiti. Lungi dal voler anche minimamente sminuire queste drammatiche situazioni che coinvolgono intere popolazioni, c’è però una violenza molto più silente, nascosta, strisciante anche vicino a noi. Nella nostra civilissima città, in quella Firenze dei diritti, delle pari opportunità, delle panchine rosse. La violenza di chi fuori casa si siede su quella panchina rossa, sorridente e solidale alla teoria; e in casa, si trasforma in un orco, che spesso con una violenza psicologica, piuttosto fisica, piano piano annienta la moglie, la fidanzata, la figlia. Con quel crescendo lento, ma terribile, di asservimento che altrettanto lentamente distorce la realtà e finisce col far percepire quella relazione di assoggettamento come ineluttabile gioco dei ruoli, anzi peggio: fa rielaborare la violenza come protezione, amore.
Foto di Nino Carè da Pixabay difesa aggressione stupro violenza donna
Storie che accadono in silenzio qui, nella nostra città, nel nostro quartiere, alla nostra vicina. Come a Elena, nome di fantasia perché ancora oggi, tre lustri dopo aver spezzato le catene, non completamente al sicuro, che è stata vittima per quattro lunghi anni del marito. Nome di fantasia di una storia vera, cruda, concreta a un passo da noi, nel nostro quartiere.

«La mia storia di violenza e assoggettamento ha inizio nel 2004, quando incontro questo ragazzo dal fisico palestrato, molto sicuro di sé, amante dei motori – inizia a raccontare Elena – A poco a poco riesce a conquistarmi con questo suo modo di fare deciso, sfrontato a tratti, ma anche molto premuroso».

Il primo passo dell’orco, come da copione, è quello di isolare la donna dalle sue relazioni sociali, facendo passare il suo possesso per amore:  «Era geloso del mio passato. Avevo un fidanzato storico con il quale mi sentivo ancora occasionalmente, per me un fratello, visto che ci siamo conosciuti all’asilo e avevamo passato insieme tutta la vita. Per assecondarlo ho lasciato andare un po’ questa amicizia, mi sembrava normale la sua gelosia e da una parte mi lusingava».
Così, l’uomo riesce nel suo gioco di scacchi a incastrare  Elena, facendole elaborare da sola, a ogni suo atto meschino, una scusa: «La storia va avanti lui è sempre un po’ ombroso e a volte arrogante, ma inizio a giustificarlo: è stanco, deve preparare la tesi, è un momento importante per lui. Si laurea ma il suo carattere non cambia e io continuo a giustificarlo: sta cercando lavoro, ma non riesce a trovare quello giusto per lui, c’è da capirlo».

Finché non gioca lo scacco matto: il matrimonio. Che ovviamente l’orco identifica alla stregua di un atto d’acquisto di una proprietà. E chi sta intorno, chi dall’esterno vede, spesso capisce come stanno le cose, ma sta zitto. Un po’ per omertà, un po’ per paura di ferire col proprio giudizio : «Compriamo casa e decidiamo di sposarci. Un sogno che si avvera, come tutte le donne ho sempre desiderato sposarmi, ero veramente felice…. Quando ho iniziato a divulgare la notizia a parenti e amici non ho visto gioia o felicità sui loro volti. È facile adesso, sono passati tredici anni e non so quante volte ho ripassato a rallentatore nella mia testa quei momenti, le facce e le parole delle persone che mi volevano bene. Ma niente mi avrebbe dissuaso dallo sposarmi con il mio principe azzurro…. neanche quei segni premonitori che credevo non esistessero: tipo le partecipazioni senza il nome della chiesa, l’assegno non andato a buon fine per il pagamento dell’abito da sposa, il prete che non segna la data delle nozze e ce lo comunica una settimana prima, ma la (s)fortuna ha voluto che comunque ci fosse posto, il trovare un bigliettino dove lui elencava le cose che avrebbe voluto fare prima dei trent’anni, compreso farsi una famiglia con una che non ero io e per finire mio padre che all’ingresso della chiesa mi pesta il velo creando un mezzo disastro… Niente, non ho colto niente e sono giunta all’altare nel mio bellissimo abito da sposa incontro al mio destino: perché quel giorno, quell’ingresso in chiesa, segnava l’inizio di un percorso tortuoso e doloroso…».

panchina rossa boschetto (2)
«Com’è cominciato non saprei descriverlo, perché forse è iniziato prima che io me ne rendessi conto, ma se devo scegliere un momento preciso direi sicuramente la sera del matrimonio non appena tornati a casa – continua Elena – È diventato scontroso e arrogante con me, ogni momento ogni mia azione era motivo di critica non andava bene niente di quello che facevo, non andava bene come ero».
Così Elena cade nella trama, e arriva ad addossarsi le colpe pur di scusare l’uomo che la maltratta: «Io cercavo di compiacerlo il più possibile, giustificando il fatto che io prima di allora, non avevo mai abitato da sola e forse non ero una brava massaia. Ma ce l’avrei messa tutta e lui sarebbe stato orgoglioso di me… Ma no! Non era così: nonostante tutto, c’era qualcosa sempre che non andava…. Non sapevo stirare, non sapevo pulire la casa e non sapevo persino fare da mangiare e poi ero ingrassata tantissimo dopo il matrimonio, a suo avviso. Ma io pesavo poco più di 40 kg
Il marito arriva a trattarla a pesci in faccia persino davanti ai parenti: «La prima festa del babbo che abbiamo passato insieme da sposati, ho deciso di organizzare un pranzo con i nostri genitori, felicissima di far vedere come me la cavavo, lui esce non so bene per quale impegno, lasciandomi indaffarata tra le pulizie e la preparazione del pranzo. “Mi raccomando alle 13 si mangia cerca di tornare puntuale”; alle 13.30 ancora non c’era, quindi noi iniziamo a mangiare senza di lui. Arriva in un ritardo mostruoso e quando glielo faccio notare, mi risponde “Io quella roba non la mangio, te ci avveleni tutti, non sai fare niente”. Il gelo. Ma io, con tutto il mio candore, rispondo “In effetti hai ragione, la pasta con i funghi non è venuta bene”».
In un crescendo, ai maltrattamenti psicologici, si aggiungono quelli fisici: «Un altro episodio, dopo essere stata a lavoro per tredici ore, aver pulito casa, preparata la cena e sistemato, mi avvio per andare a letto alle 23,30 (contando che la mattina mi alzavo alle 5,30) stremata da una giornata lunga e faticosa; quando pensavo fosse finita, mi prende e mi infila sotto la doccia vestita, apre l’acqua dicendomi “Puzzi di fumo, non entri a letto in queste condizioni!”. E potrei stare qui ad ore a raccontare i mille episodi che sono successi e che ho sempre sottovalutato».
violenza sulle donne
Elena non è neanche più libera di disporre del proprio denaro: «Io lavoravo, avevamo il conto cointestato e ogni settimana le mie spese venivano passate in rassegna: “Cosa hai comprato? Perché? A cosa ti serviva?”. Dovevo conservare tutti gli scontrini ed esibirli, pronta a giustificare ogni singola voce».
Rimane sempre più sola nelle sue angosce, mentre lui cerca di isolarla addirittura dalla famiglia: «A poco a poco mi ha allontanato da tutti dai miei amici, perché era geloso del rapporto che avevo con loro; e dalla mia famiglia, sì perché, in fondo in fondo, io provavo vergogna per aver scelto lui e per aver deluso tutti. Mia mamma mi chiamava al cellulare un solo squillo se potevo, perché lui non c’era la richiamavo, altrimenti lei capiva e ne riparlavamo il giorno dopo».
Qualcosa dell’istinto di sopravvivenza di Elena riemerge, e comincia a maturare la consapevolezza della propria condizione:
«Ho resistito meno di due anni a questa violenza, che non lascia segni esteriori ma che lascia profonde cicatrici nel cuore e nell’anima. Sì, sono stata vittima di violenza psicologica, subdola ma altrettanto terrificante; adesso con il senno di poi, non escludo di aver subito anche violenza fisica, molto velata. Probabilmente o forse, non la volevo vedere perché se passando un uomo alto e di 80 kg ti dà una spallata e tu sbatti contro qualcosa, non è stata necessariamente distrazione. Una volta toccato il fondo – ero arrivata a pesare 40 kg, mi stavano cadendo i capelli e a causa della magrezza, nonostante prendessi la pillola anticoncezionale, non avevo più mestruazioni – la svolta».
giardino Michela Noli panchina rossa
A far maturare quell’istinto, un episodio, che Elena non definisce scatenante, già che si andava ad assommare a un’altra infinità; piuttosto, fu la goccia che fa traboccare il vaso: «Una sera litighiamo più forte del solito, mi prende la faccia tra le mani e me la strizza. Guardandomi dritto negli occhi mi dice: “Hai paura che adesso ti picchi“. In quel momento, ho avuto paura, tanta paura, e ho fatto una cosa. Adesso realizzo che è stata da incosciente, gli rispondo: “No, ma se mi devi picchiare, fai in modo che non mi rialzi, perché se mi rialzo ti rovino”. Lui molla la presa, mi guarda stupito, incredulo di aver ricevuto un così grande affronto. Esco velocemente di casa e inizio a vagare senza meta, non ho preso né i soldi, né le chiavi della macchina. Non posso fare niente, né andare da nessuna parte… Chiamo i suoi genitori, che nel frattempo erano stati avvertiti da lui, che gli aveva raccontato tutta la verità, quella vera, dicendo: “Ho fatto una cazzata“, mi tranquillizzano, mi riportano a casa da lui e mi lasciano lì con lui da sola… A pensarci, ancora oggi mi vengono i brividi, e penso che il mio angelo custode quella sera ha messo una mano sulla mia testa e mi ha protetto».
Come da copione, il marito finge, forse credendoci in quel momento, un pentimento, ma Elena sa che non può essere vero, o duraturo. Ormai l’istinto di sopravvivenza si è riacceso e se vuole salvarsi, può solo seguirlo: «Lui era lì, tutto dispiaciuto e preoccupato, un agnellino. Si è scusato e ha chiesto di essere perdonato…. Ma io sapevo già nella mia testa che non sarebbe cambiato e che nel giro di poco la situazione sarebbe tornata come prima. Quindi la sera successiva torno a casa, preparo le valige e le carico in macchina, pulisco casa e preparo la cena, lo aspetto e gli dico: “Queste sono le chiavi, io torno dai miei genitori, non voglio avere più niente a che fare con te”. Era il 31.07.2008, il giorno della mia ritrovata libertà».
panchina rossa viale dei bambini
Lui, ferito nell’orgoglio, nel possesso, reagisce credendo di avere ancora in pugno la vita di Elena. Ma è poco più di un capriccio da bambini, che si sgretola sotto i suoi stessi piedi. Perché finalmente quella donna repressa, subissata, infangata è riemersa, anzi sbocciata: «Mi ricordo le sue ultime parole: “Tu non sei niente, non vali niente e senza di me non farai mai niente. Sei il nulla da sola“. Come si sbagliava! Quel niente adesso ha un compagno straordinario (che ha raccolto i cocci di una me insicura, diffidente e impaurita), che ha saputo rispettare i miei tempi e ha abbracciato i miei traumi e le mie paure, rispettandoli e curandoli con amore, due bellissimi bambini, una famiglia unita e meravigliosa, ha iniziato a svolgere la sua professione in modo autonomo e ha costituito una società… Forse si sbagliava: il niente era lui».
«Ne sono uscita semplicemente con la forza della disperazione non saprei cosa altro dire – spiega la donna rinata – Non c’è stato nessun evento scatenante, ho solo capito che dovevo reagire, se non volevo rischiare di lasciare la casa chiusa in un sacco nero, chiamalo istinto di sopravvivenza, o follia o come vuoi, ma è partito da me, solo da me».
Donna rinata, che può essere testimonianza a molte, troppe altre donne che vivono quella deleteria condizione che Elena viveva tredici anni fa. Perciò le chiediamo un messaggio per tutte quelle donne che ancora oggi sopportano violenza e supportano i loro aguzzini, addossandosi colpe che non hanno. Perché questo 25 novembre non sia solo una delle tante giornate internazionali, che ormai fioriscono di tutti i tipi, da quella del Jazz a quella della Pizza, da quella del Turismo a quella dei Legumi:  «Cosa direi alle altre donne…. è difficile dire qualcosa, perché qualunque cosa tu possa dire è quella sbagliata. Posso solo dire che non devono sentirsi assolutamente sbagliate o sporche (termine forte ma che rende bene l’idea di quel senso di inadeguatezza che ti avvolge in queste situazioni, un po’ come quando in estate hai sudato e sai di non sapere proprio di fresco) e che le abbraccio forte forte una per una; e di chiedere aiuto se da sole non ce la fanno, perché non sono sole e non resteranno mai sole e che la paura si vince solo combattendo».
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