Serena Spinelli, consigliera regionale uscente, si è occupata nella legislatura regionale che volge al termine soprattutto di sanità e sociale, tematiche cui è legata dalla professione medica e quanto mai preminenti nelle periferie, declinandole anche al nostro quartiere. Adesso, come candidata capolista di Sinistra civica ecologista, lista a supporto della coalizione di Eugenio Giani, ripromette di continuare a portare anche le sue battaglie per il quartiere sui banchi di palazzo Covoni Panciatichi. Perché risultati ce ne sono stati, ma le mete si continuano a costruire in itinere.
Si è occupata dell’emergenza abitativa dei rom, in particolare del villaggio del Poderaccio. A un mese dalla chiusura del campo, la questione può dirsi risolta? Altre famiglie abitano in condizioni precarie ai margini del campo in baracche di fortuna. Quale destino per loro?
«Dobbiamo continuare a fare le cose che la Regione Toscana ha fatto e può continuare a fare in questi anni. Cose che poi sono state anche molto contestate dal punto di vista di chi vorrebbe governare questa Regione al posto nostro. In realtà credo l’investimento vero per la loro vita e per tutta la comunità che vive intorno a loro, sia dare risposta in termini abitativi e di integrazione come progetti specifici per l’inserimento scolastico, cioè dare piena cittadinanza e pieno diritto. Non dimentichiamo che i rom sono cittadini toscani, perlopiù anche nati qua; quindi quell’atteggiamento per il quale si pensa che le risorse investite su queste popolazioni, siano risorse spese male è una considerazione completamente sbagliata, perché qui ci sono cittadini e cittadine, bambini e bambine.
Credo che questo la sinistra lo debba dire con forza, perché non è mettendo gli uni contro gli altri che si risolvono i problemi delle persone, ma è provando a dare loro risposta. Ognuno ha problemi differenziati, ma è dovere della sinistra rispondere dei diritti di tutti e anche il popolo rom ha dei diritti. Noi dobbiamo costruire insieme a loro, dunque potenziare il lavoro di integrazione fatto dalle associazioni. Non bisogna pensare che con il cosiddetto “arrivo lì e spiano tutto” come fatto dalla candidata della destra a Cascina si risolva qualcosa: ciò che è accaduto è che queste persone sono state spostate da Cascina, non è stata data loro nessuna risposta, e la problematica legata alla loro vita si è semplicemente spostata sui comuni limitrofi. Tuttavia bisognerebbe spiegare che quando si investono delle risorse per risolvere questi problemi, il beneficio va a tutta la comunità».
L’ospedale di Torregalli ha avuto delle criticità durante l’emergenza Covid-19 di marzo. Qualcosa non ha funzionato o si tratta di fenomeni fisiologici dovuti al massiccio afflusso in emergenza? Cosa ci dobbiamo aspettare da un possibile ritorno di una seconda ondata?
«Abbiamo stanziato le risorse per ristrutturare il nuovo pronto soccorso. Il ruolo dell’ospedale di Torregalli è centrale nella città di Firenze e non solo, poiché copre anche le esigenze dei comuni limitrofi, come Scandicci e Lastra. Dobbiamo continuare a investire su San Giovanni di Dio insieme ad altri ospedali della rete ospedaliera della provincia di Firenze, come Ponte a Niccheri e all’area universitaria di Careggi, deve svolgere un ruolo strategico.
Per quanto riguarda in particolare la pandemia, quello che le aziende stanno progressivamente facendo con i dipendenti di queste strutture è di investire sul personale ospedaliero: la qualità dei nostri ospedali la fanno i nostri operatori, anche quando le cose non vanno ci sono persone che provano a farle andare. Altra cosa che dovremmo fare e stiamo già facendo, selezionare all’ingresso coloro che hanno un rischio di positività e avviarli verso un percorso più sicuro e differenziato in modo che non sia l’ospedale il luogo in cui si diffonde l’infezione. Questo si può fare e lo stiamo già facendo con i tamponi: è una cosa che andrà avanti a lungo e che dovremo continuare a gestire, ma dovremo anche gestire delle altre patologie. Questo vale per Torregalli e vale per tutte le altre strutture ospedaliere che si stanno organizzando per non essere il luogo dove si diffonde il Covid, ma quello dove si curano tutte le altre patologie»
È presidente dell’Osservatorio regionale sul gioco d’azzardo. Sale slot e sale scommesse che spuntano come funghi soprattutto nelle periferie più popolari e questo quartiere non fa eccezione. Possiamo parlare di dipendenza patologica incentivata e legalizzata? È un caso che queste attività fioriscano ancor più là dove risiedono le fasce più debole e fragili della popolazione? Che strumenti potrebbe avere la Regione per intervenire sul fenomeno?
«Il gioco è una dipendenza trasversale che interessa anche le classi sociali più alte, chiaramente si gioca in modalità diverse. Sicuramente si nota che nelle fasce più deboli il gioco viene utilizzato come falso strumento di riscatto. C’è una tendenza a pensare il gioco come un’attività innocua legalizzata, in realtà in Italia il gioco d’azzardo è ancora illegale. Mentre nel Tulp il gioco d’azzardo è illegale, in realtà c’è una possibilità di gioco ampiamente legalizzata. E poi c’è tutto il capitolo che riguarda il sommerso, attraverso il quale passano anche fenomeni d’infiltrazione criminale: è la terza fonte di reddito per le organizzazioni criminali, dopo droga e commercio d’armi. Quindi si ha una dicotomia tra ciò che è illegale e ciò che è consentito: tante piccole forme di gioco d’azzardo in cui le persone si rovinano la vita, come giocare a una videolottery, a una slot machine, oppure banalmente anche comprare molti gratta e vinci può essere un elemento di rischio per lo sviluppo della dipedenza patologica da gioco d’azzardo.
La Regione Toscana in questi anni ha fatto molto, la legislatura ormai si è interrotta, ma c’è già pronto il nuovo piano di contrasto e di programmazione rispetto alla prevenzione del gioco d’azzardo. Perché dobbiamo lavorare sopratutto in termini di prevenzione: dobbiamo essere in grado di spiegare alle cittadine e ai cittadini di questa regione, che giocare d’azzardo ti rovina la vita, non te la cambia. Vari meccanismi sono fattori di induzione al gioco, le luci delle slot machine, l’idea che dopo un po’ vincerai, perché per legge le macchinette devono restituire la vincita ogni tot giocate: questo comporta che, in qualche modo, si favorisce la persistenza del gioco. Per cui dobbiamo informare e continuare a fare progetti, come già la regione sta facendo, identificando i nuovo target. Penso ad esempio al mondo degli anziani: arrivano sempre più segnalazioni che persone si rovinano con i gratta e vinci nella terza età. C’è anche un target di lavoro sulle nuove generazioni, ma la scuola ha fatto molto, dobbiamo insistere, ma è certo un mondo più studiato rispetto agli altri.
Avremmo poi bisogno di una legge nazionale per cui abbiamo la possibilità come enti locali (la Regione in termini di programmazione, ma anche il Comune) di poter realmente arginare la presenza delle sale slot . Abbiamo una legge regionale che non permette l’apertura di luoghi di gioco a cinquecento metri da punti sensibili, come chiese, scuole, centri anziani, persino bancomat; chiaramente la retroattività della legge non è possibile, perché verrebbe immediatamente impugnata. Abbiamo coinvolto anche gli operatori che lavorano in questo settore, per fare alleanza e aiutarci a segnalare e capire le situazioni di disagio vero. Abbiamo poi degli straordinari operatori che lavorano nei Serd, che sono il luogo centrale dove si attuano le azioni di contrasto.
È necessario quindi agire soprattutto sulla prevenzione; poi sulla comprensione del fenomeno: comprenderlo e farlo comprendere; riuscire inoltre ad avere una legge nazionale che dia agli enti locali più strumenti di intervento e di condizionamento all’apertura delle sale gioco; in ultima analisi la cura e la presa in carico dei casi: la Toscana ha un percorso terapeutico in tutta la regione, che va potenziato e diffuso. Però la Regione Toscana lavora sul fenomeno dal 2007 e di questo deve esserne orgogliosa».
Quali idee per questo quartiere?
«Vogliamo che le periferie, o meglio i luoghi più distanti dal centro storico siano luoghi in cui si vive bene. Pur essendo questo quartiere una zona che si è saputa riorganizzare in maniera straordinaria (è un luogo che ha degli ampi spazi verdi, un altissimo livello di mondo associativo, una capacità di partecipazione molto attiva), mancano alcuni servizi. Proviamo a capire perciò come dislocare quei servizi che mancano e questo credo che sia soprattutto sul versante dei servizi sociosanitari, un lavoro che andrà avviato nella programmazione regionale insieme al ruolo del Quartiere e del Comune di Firenze.
È necessario inoltre lavorare sulle difficoltà che esistono all’interno delle case popolari, perché sappiamo che abbiamo bisogno di investire in ristrutturazioni, per la qualità della vita dei nuclei familiari. Ritorniamo a pensare questi territori come luoghi in cui le persone devono trovare un’ottima qualità della vita perché questo è stato l’Isolotto, un luogo che si è riempito di qualità. Continuiamo a lavorare su questo, anche se già c’è un buon livello di qualità della vita: quando vengo all’isolotto non mi sento in periferia, ma in un luogo della città. I quartieri di Firenze continuano a essere, in generale, luoghi straordinari della città: andiamo pure a correggere e a intervenire su quello che può mancare, per renderli sempre di più non periferie, appunto, ma luoghi veri di vita»