Cronaca
Donami Signore, poesia di Grazia Coianiz
Donami Signore, di Grazia Coianiz. Seconda poesia classificata ex aequo sezione tema religioso del Concorso di poesia religiosa 2017 dell’Mcl di San Bartolo a Cintoia, in collaborazione con Isolottolegnaia.it
Donami Signore
Donami Signore
occhi per guardare, cuore per vedere
orecchie per sentire, piedi per accorrere
e mani per soccorrere.
Donami un’anima
con la porta spalancata per accogliere
scrigno per la tua parola
ricovero a chi bussa.
Creda il fratello
troppe volte abbandonato
umiliato, tradito
ucciso dal fratello
che Allah è grande
ma nei miei occhi veda
che il Signore è buono.
Grazia Coianiz – Firenze
Come sempre, in Maria Grazia Coianis si colgono le note profumate della religiosità vera, la religiosità che che sa accogliere l’ altro come fratello bisognoso di accoglienza, amore, sostentamento. La vera religiosità riconosce negli altri la fratellanza, la vicinanza. Le barriere cadono nel cuore del buono che unisce ciò che altro aveva diviso. La religiosità è un moto profondo dell’ anima che sa contenere in sé la grandezza e la bontà. La religiosità crea ponti fra i cuori, vola sopra l’ arcobaleno a riunire le opposte rive dello stesso fiume. Solo la delicata,essenale e limpida, tuttavia al contempo mesta e umile poesia di questa nostra grande poetessa, poteva donarci tanto amore sospingendo il nostro cuore verso la dolente riva del fratello bisognoso.
Non è facile di questi tempi aprire veramente il nostro cuore agli altri, a chi ha bisogno di comprensione, tenerezza, cura. Io vedo intorno a me tanta gente che, dichiarandosi appartenente all’ ” associazione Tizio, Caio, Sempronio ecc…” declama a gran voce sulle piazze e sul web la sua giornata di carità verso i deboli, che magari è da dimostrare se sono i veri deboli, considerato che in questo paese molto spesso ha più bisogno chi purtroppo se ne resta in silenzio, vergognandosi, sentendosi sulle spalle il giogo dello stigma, della inutile vergogna, della paura del giudizio, del pregiudizio e della reazione altrui. Pensiamo, tanto per fare qualche esempio, a tutti i profughi disperati e dispersi che s’ aggirano nelle vie delle città brulicanti di genti e pertanto facili nascondigli di una diversità dannata e troppo sovente respinta e tenuta invisibile ai margini della società, dei dibattiti, delle “associazioni” di cui sopra; pensiamo mai che fra costoro ci sono anche ragazzini minori non accompagnati che per arrivare fino alle nostre strade piene di luccichio vecchio e inutile ne hanno viste e patite di ogni colore? E queste”associazioni de noiantri” pensano mai che ci sono malattie gravissime che colpiscono invece i nostri stessi giovani che non trovano però le cure necessarie perché mancano ambulatori dedicati, residenze e reparti di cura dedicati? Quelle che ci sono non riescono a garantire le cure dovute a tutti i giovani cittadini del paese! Parlo, dati alla mano, delle terribili malattie legate ai disturbi dell’ alimentazione: i mortali DCA. La giornata loro dedicata passa sottotono, nessuno ne parla se non, sul web stesso, i malati stessi ( quelli che possono farlo!),le loro famiglie strette nella morsa dell’ angoscia, i generosi clinici che li seguono facendo coi mezzi a loro disposizione il possibile e l’ impossibile.
Molti hanno dunque la loro giornata di celebrazione e hanno le braccia che li accolgono e le raccolte di danaro per aiutare la ricerca sulla loro condizione. E magari vediamo i social del web zeppi di selfies e foto che ritraggono i benefattori di questa giusta ma, chissà perché, irriducibilmente parziale carità,all’opera. Come mai questi ottimi esperti di carità da postare sul web non vedono che sul web ci sono anche le dolorose pagine che richiamano alla giornata del Fiocchetto Lilla che tutti dovrebbero appuntarsi al petto il 15 marzo in un paese che dimentica una parte tanto grande di suoi giovani sofferenti? L’ OMS indica che i DCA sono la seconda causa di morte fra i giovani dai 14 ai 25 anni dopo gli incidenti stradali e segnala che l’ eta’ di esordio tende ad abbassarsi,fatto molto grave! I micidiali DCA si sviluppano anche e soprattutto per l’indifferente inidoneità della nostra societa’, una societa’ sfrenatamente narcisista che idolatra da anni e anni divinita’ ipocrite e irreali che si chiamano fattezze perfette, femminilità e mascolinità irraggiungibili, esibizionismo, edonismo, ricchezza. Oggi è provato che questa società annegata nel suo malato narcisismo e’ notevole parte in causa, assieme ad altri fattori, nell’ esordio, nella mancata o inadeguata cura della malattia, nel mantenimento dei terrificanti sintomi. E ci sono tante altre situazioni e condizioni che vengono di fatto marginalizzate dalla carita’ tanto ostentata sui social, basta pensarci un po’. Le parole di Maria Grazia Coianiz richiamano con infinita dolcezza, ma anche con inesauribile determinazione alla vera, autentica natura della carità, dell’ accoglienza, dell’ attenzione verso tutti, della cura di tutti. Maria chiede a Dio di avere occhi, orecchie, braccia, cuore per accogliere tutti, proprio tutti nel suo cuore, nel silenzio dolente del cuore colpito dalle sofferenze dell’ umanità. Maria chiede la capacità di accogliere chi è stato umiliato dai fratelli e di poter dimostrare che Dio è bontà, non altro. Tutti devono aiutare tutti, non si può discriminare nessuno, magari per ignoranza o leggerezza o pregiudizio. E poi ditemi, c’ è veramente bisogno di mostrare sé stessi col dono in mano, a mo’ di trofeo da sbandierare per mostrare bellezza e bontà intime che così facendo vanno invece ad allontanarsi sempre più dal “benefattore”. È bene ricordare, in proposito, le bellissime parole di San Paolo sulla carità:” …la carità… non si vanta, non si gonfia di orgoglio…” È questa la carità che Maria, con poche, splendide, essenziali parole chiede di possedere per aiutare veramente il prossimo, per dimostrare il cuore buono di Dio. È questa la carità che non ci farà dimenticare nessuno di coloro che attendono una mano sincera.
La poesia “Donami Signore” di Grazia Coianiz è quanto mai attuale. I veri cristiani dovrebbero sempre pregare il Signore di poter amare il prossimo come il Signore ci ha dimostrato di amare, certamente facendo
Cio’ che a noi e’ impossibile : moltiplicare i pani e i pesci per i fratelli in difficolta’, restituendo la salute dei corpi e la salute dello spirito ai fratelli nel dolore e nell’ amarezza, resuscitando dalla morte il figlio unico di una povera vedova, resuscitando Lazzaro. Il Signore certo fece le opere di grazia e carità suscitando clamore e meraviglia, e la sua fama travalicò i confini della sua terra, ma il Signore non si mostrò mai come il divo, come l’ esibizionista che mette sotto gli occhi di tutti i suoi poteri, la sua bontà, la sua capacità di dare e fare. No, il Signore che ci guarda infinitamente buono dal ritratto azzurro che accompagna la profonda e accorata poesia di Grazia Coianis, si è mostrato a noi in umiltà, perché solo l’ umiltà raggiunge la sofferenza che non trova né cerca posto per esibirsi nel mondo. Essa è relegata, reclusa e al massimo oggi trova uno spazio fasullo sulle bacheche di persone che hanno il vuoto nell’ anima. Solo chi è vuoto può portare la sua carità su foto ridanciane e perciò volgari di social che vanno a d avvertire tutto il mondo di…tanta stoltezza! E forse non solo, perché sovente l’ esibizionista ha da nascondere marciume e putrefazione. Grazia Coianiz conosce la sofferenza più profonda. Grazia Coianiz sa quanto sia difficile proporre aiuto, essere caritatevoli in modo autentico, aprire con umiltà tutta la propria persona a chi tende la mano, a chi soffre in silenzio come una vecchia cosa abbandonata in un angolo e dimenticata. Grazia Coianizs dimostra di capire l’ esistenza di tante sofferenze nascoste o respinte. Grazia Coianiz chiede infatti al nostro Signore di saper accogliere anche il fratello questuante che dà un altro nome al Signore nostro, creatore del mondo e di tutte le cose visibili ed invisibili che ci circondano, e che ne loda la grandezza. Grazia Coianiz chiede invece che nei suoi occhi venga colta la bontà del Signore, il Signore che ci dato la vita, i beni del mondo, le persone di cuore che cancellano con le loro preziose opere e parole la stoltezza, la superficialità, la malafede dei più.
Sì, é proprio vero quanto dice la commentatrice precedente. Troppa gente oggi fa una carità che mi sembra, modestamente, pensata per esibirsi sui social . Anche una volta si faceva carità e tanta e senza la smania di andare di corsa a mettersi in posa sul web. Ha detto forse di far questo Nostro Signore? Non mi mare proprio. Anzi se leggiamo tutta la bellissima Lettera di San Paolo sulla Carità mi pare che il vero cristiano, la persona autentica e sincera facciano esattamente il contrario. E a me sembra che tra le righe della sua bella poesia anche Maria Coianis chieda di poter praticare solo la vera Carità, quella carità che ha bisogno di occhi per vedere tutti coloro che soffrono, la vera carità che necessita solo di cuoreaperto, di orecchie per udire il grido di dolore di tutti,di mani per accogliere, raccogliere, risollevare dalla polvere il sofferente. Nella seconda strofa Maria Coianis chiede a Nostro Signore un’ anima spalancata a tutti, indistintamente, uno scrigno colmo di parole per chi ne ha bisogno, un cuore fatto ricovero per chi bussa in cerca, prima di tutto, del conforto.Maria Coianis non chiede mani e occhi per andare a postare la sua Carità vera, totale, totalizzante su un web che umilia invece l’atto caritatevole che necessita di discrezione, sussurri, taciti sguardi colmi d’affetto, silenziose preghiere che nascono dalle profondità dell’anima per chiedere al Signore la capacità di amare tutti senza lasciare alcuno in disparte. Il mondo intero ha conosciuto tardi l’immensa bontà di una piccola suora vestita di bianco che ha elargito la carità più estrema a piene mani, con la sola indomabile forza del cuore e della silente preghiera. E quando i nostri potenti media l’hanno finalmente vista e raggiunta, lei ha chiesto solo Carità per i sofferenti e non spazi televisivi o d’altro genere per sé. Senza nulla dire ha persino venduto la magnifica auto di cui un grande papa le fece dono per andare a raccogliere i suoi diseredati pur di ricavarne denaro di cui i suoi poveri necessitavano. Maria Teresa di Calcutta, nonostante l’età, la generosità di un pontefice verso la sua vecchiaia, senza clamori di sorta fece quel che doveva fare per i bisognosi e non si curò minimamente degli spazi di gloria che i media le davano. Lei aveva fatto tanto, per tanti anni senza andare a cercare i clamori dei media.
La Carità si fa senza andare a finire sui media, senza andare a mostrarsi sui media. Altrimenti, secondo me, siamo del tutto al di fuori di cio’ che Nostro Signore ci ha chiesto per mezzo di San Paolo.
Maria Coianis chiede solo che tutta la carità che lei può portare nel mondo consegni al mondo intero il sentimento della bontà di dio. questa é la vera Carità. Questa é la vera Fede. Questa é la vera Speranza. Fede, Speranza; Carità: le virtù di Dio per intervenire sul mondo. E la più importante é proprio la Carità che fa sì che ognuno ami il suo prossimo come ama Dio. E l’amore del tuo cuore per Dio lo vai a mettere su facebook, twitter, instagram e compagnia bella?. Anche a me che sono solo una persona di fede sembra proprio un peccato di mera vanità che toglie il senso alla Carità. Di Maria Grazia Coianis ho letto a fondo le due poesie che appaiono su questo bel sito. Ho trovato notizie di lei (ecco a cosa può servire un buon web!) e capisco quanto sia grande e autentica la sua fede,nonostante le gravi prove. Mi piacerebbe che pubblicaste, se potete farlo, altre poesie di Maria Coianis.
Certo, se l’autrice ce le invierà, ben volentieri!
Il Signore ha infuso nel cuore degli uomini la fratellanza, la reciprocità, il bisogno di cura l’ uno verso l’ altro già al momento della Creazione. E basta osservare i cuccioli dell’ uomo per comprendere quanto grande è l’ amore del Creatore per la creatura che ha creato a sua immagine e somiglianza come fa il padre mortale coi figli suoi. I piccoli si cercano, giocano, litigano, si riabbracciano, si aiutano nella faticosa impresa di crescere. Hanno il cuore e la mente scevri d’ ogni pregiudizio e malvagità. Vogliono solo stare assieme, scoprire assieme le strade del mondo. A loro non importa il colore della pelle e il diverso suono delle parole. Si comprendono e si prendono per mano spinti da quel soffio intimo racchiuso nel loro cuore verso la vita, la comprensione, la luce. Ho visto partire così, verso la vita tutta in salita tanti piccoli; li ho salutati sorridendo fino all’ ultima svolta, mentre se ne andavano a frotte dopo anni di lavoro salutandomi con la manina ancora paffuta fino a quella svolta oltre la quale io non potevo vegliarli più. Mi chiedo ogni giorno come possano le persone, crescendo, smarrire quel caldo soffio d’ affetto che nutriva la loro crescita, come possano le persone nate fratelli, diventare nemici pronti a colpire a morte. Nell’ uomo c’ è il bene e c’ è il male, non v’ è dubbio. Tuttavia io non riesco a comprendere donde sgorghi, copiosa e terribile, la malevolenza e la crudeltà fra fratelli. Ha sapienza l’ autrice: non chiede di capire la natura del fratricidio, chiede a Dio solo la capacità di accogliere tutti nella speranza di riuscire a far rivivere in tutti quell’ amore vivo e forte che una mano lieve aveva un tempo posato silente nel cuore di tutti.
Indubbiamente questa è un’ invocazione di aiuto, di forza nella fede, di credo nella vita e nella pace come se ne possono ormai leggere poche. L’ autrice vi ha cifrato un tocco incredibile di umiltà e delicatezza. È una lirica molto bella che invita a riflettere.
Forse i fratelli mentalmente e psicologicamente più deboli sono coloro che si credono forti, accolti dal plauso, invincibili tanto da non comprendere l’ umiliante situazione in cui ormai si trovano socialmente. Tutti sanno perché vestono un determinato colore, perché brindano ad ogni ora, perché pubblicano e ricevono ridicoli squittii sui vuoti social cui s’ appigliano proprio in determinati giorni, persino determinate ore di quel giorno. Non si rendono conto che tutta la loro squallida vita è da sempre sotto il controllo dei tanti che sanno e tacciono e dei pochi che sanno e fingono di non sapere per condurre il gioco fin dove decideranno esso giunga. Povere anime, disperse nella nebbia del narcisismo e dell’ egocentrismo infantile, rimasto là al tempo di quell’ attonita foto di bambola vuota. La tarda età non nasconde una mente incolta e una psiche senza contenuti, che non siano bambinesche dimostrazioni e rimostranze. Anche queste sorelle e fratelli nostri hanno bisogno di essere accolti e aiutati a vivere da esseri umani da chi ha occhi, mani, cuore per vederli ed accompagnarli verso quella pietà che l’ anima vasta e vera non negherà nemmeno a questi poveri mentecatti che elemosinano da un selfie all’ altro il plauso degli stolti o dei vili che di loro si fan beffe, sfruttando ogni loro passo falso. Maria Coianis chiede forza al Signore per assistere tutte le sorelle e fratelli intrappolati nelle miserie della terra. Non passa giorno che le parole di Maria Coianiz non portino nuovi pellegrini questuanti alla porta dei forti ricchi dei gioielli loro donati dal Padre Celeste, coloro che, soli, sapranno trovare per loro ciò che la loro vita orfana del vero bene fin dalla più tenera età ha loro negato.
Il Signore dona un cuore aperto ed accogliente solo a chi ha l’ umiltà di chiedere un cuore aperto ed accogliente, lontano dalle meschinità, lontano dalle sopraffazioni, lontano dalle violenze del mondo. Meschinità, sopraffazione e violenza sono le miserabili caratteristiche più diffuse tra le persone, soprattutto quelle che dedicano la loro vuota e squallida vita alla finta carità celata da ipocrisia sorridente e suasiva che agisce subdola dietro paraventi di carta velina fatti di vecchi e logori politicismi trasformati dai vecchi e logori, ma furbeschi figuranti nel giovanile,immaturo, monco,sovente ridicolo codice linguistico dei social in cui attrarre con abusata ipocrisia i creduloni incolti ed altri ipocriti loro pari. Ipocrisia sorridente fatta di vantati assistenzialismi, pietismi, sindacalismi da prepotenti social a senso unico che non vogliono o non sono capaci di camminare nella verità di cui le nuove generazioni,le nuove povertà e le nuove sofferenze hanno bisogno. Il mondo non ha bisogno dei sorrisi vacui di vecchi praticanti le vecchie strade che ripercorrono vergognosamente vecchie carreggiate che curano unicamente l’ interesse dei vecchi fruitori i quali ricambiano la squallda ipocrisia ricevuta con l’ ipocrita plauso ai fasulli che elargiscono malamente, senza cuore, col riso spalancato e obliquo di chi ” concede” come magnanimo elargitore anziché fratello debitore. Bisogna sempre ricordare che tutto ciò che abbiamo proviene dal lavoro sofferto di tutta la comunità e dalla grazia di dio che ce lo lascia godere: basterebbe infatti una malattia e quel che noi stoltamente crediamo nostro passerebbe rapidamente di mano. Cambiare sé stessi, abbandonare la propria vetusta ipocrisia per correre incontro alle nuove miserie, alle nuove sofferenze del mondo. Forse è una richiesta vana: chi ha vissuto da ipocrita incompetente forse non può cambiare perché l’ ipocrisia è la sua vera e inestirpabile natura. Però la speranza è l’ ultima a morire. E io voglio credere ancora ad un altro mondo fatto di gente vera, non da figuranti di social che ricordano le vecchie e bisunte carte da briscola in uso alle taverne dei bevitori e bestemmiatori seriali. Il mondo oggi ha bisogno del cuore sincero e vero di tutti coloro che lasceranno a terra il vello putrescente dell’ ipocrisia e il manto maleodorante della carità facile e fasulla. Il mondo di oggi ha bisogno di tanti che sappiano tendere la mano a fratelli storditi da tanti mali, affranti da immani sofferenze. Maria Coianis ci indica la strada, come più volte ha fatto nelle sue intense liriche. Sta a tutti riflettere, comprendere, rinnovarsi, operare secondo la Carità che Maria prega le venga donata. L’ umiltà di Maria commuove, conoscendo le sofferenze che hanno forgiato la sua anima resa forte e capace di tanta Carità dalle stesse sofferenze patite, interiorizzate, sublimate: Maria è Carità nelle sue stesse parole che ci dona con la generosità del suo cuore. Con le sue capacità artistiche rare, molto notevoli nella poetica del vissuto femminile di cui il nostro mondo letterario scarseggiava, Maria Coianiz dà, a mio avviso, un impulso notevole alla poetica del femminile, che, personalmente, ho ravvisato, anche negli anni recenti, sopravanzata dal modello maschile. Maria Coianis ha portato in questi anni, assieme ad altre intense voci femminili, la poetica della femminilità, della visione femminile del porgersi al mondo e alla letteratura, del sentire e vivere le emozioni più intense, comunicando col linguaggio peculiare che la donna possiede. Maria Coianis lo fa con una singolarità sublime, ricca di spunti emotivi quanto di maestria espressiva, e la religiosità che avvolge lieve e preziosa tutta la sua produzione rende ancor più intensa la sua Poesia.
Maria Coianiz chiede a Dio ciò che Dio infonde senz’ altro alla nascita in tutti gli esseri umani. Tuttavia la maggior parte degli esseri umani perde per propria volontà, sempre, la capacità di aprire il proprio cuore agli altri, di donare conforto, di aiutare, di amare. È una tendenza quasi sempre incoercibile quella degli uomini di serrare strettamente l’ anima così come Dio gliel’ ha infusa per esercitare invece un libero arbitrio che li porta a scegliere il male perché la scelta del male gli dà un senso di onnipotenza, di superiorità, di egemonia sui suoi simili. La vita alle volte punisce il sacrilegio commesso contro Dio, altre volte non siamo in grado di leggere se il sacrilegio viene punito. Tuttavia io sono certa che la legge del contrappasso colpisce i malvagi. Sì, io penso purtroppo che la maggior parte degli esseri umani eserciti la malvagità in varie forme usando la violenza evidente e bruta oppure usando la maschera dell’ ipocrisia , maschera orrida che nasconde dietro la falsa mitezza, il falso sorriso, la finta benevolenza dei discorsi, le maniere belle ed affettate, delicate persino, le violenze più sporche : quelle perpetrate contro i deboli, gli inermi, gli innocenti. Il mondo è pieno di crudeltà di tal fatta, basta vivere, anche poco purtroppo, basta aprire i giornali, ascoltare la radio, vedere la televisione. Per la bruttezza che ci avvolge da vicino basta recarsi in un qualsiasi tribunale a richiedere il fascicolo penale e vi si leggeranno quante signore tutte carinerie e sorrisi amorevoli hanno invece sulle spalle trascorsi orribili acciambellati ad arte grazie al ” patron ” di vecchia data: forse se queste raccapriccianti sacrileghe non si mettessero tanta maschera sulla faccia a nessuno passerebbe per la testa di far controllare. Parimenti possiamo dire di tanti bellimbusti che nascondono la loro malvagia natura dietro tentennanti sorrisi, buone maniere, mestieri sociali, finte timidezze e finte riservatezze,pericolose delicatezze e solitarie bevute che non giovano certo a essere uomo. Ciò che ci sta intorno è terrificante, semplicemente.
La preghiera accorata di Maria ha un senso immenso nella società in cui viviamo. Da anni i valori umani che la poetessa richiama scemano e scivolano velocemente verso il vuoto. Adesso siamo nel vuoto. Ci giriamo attorno, fingendo spesso di non vedere e non udire i sacrilegi che ci circondano. Le persone di buona volontà devono farsi forza maggiore, darsi vicendevolmente la mano e affrontare l’ abisso morale per togliere da esso almeno le creature innocenti che sono spaventate da tanta follia, da tanta crudeltà e brutalita’ che le stritola e costringe da tutte le parti.
Sto seguendo la trasmissione pomeridiana del primo canale Rai. Scorrono le immagini dei mucchi di macerie che da due giorni vediamo ad Ischia. Le telecamere stringono sulle immagini dei pompieri che sfidando la morte sono arrivati ai tre piccoli sepolti sotto la loro casa. Quegli uomini hanno lavorato con la leggerezza degli angeli, guidati dalla luce di dio e dal loro incredibile altruismo. Hanno parlato coi piccoli senza posa, li hanno dissetati e nutriti ancor prima di raggiungerli attraverso lo stretto pertugio che solo mani d’ angelo sanno costruire. Sono arrivati a quei corpicini e, nel sorriso, li hanno caricati con gesti invisibili portandoli alla luce. Miracoli. Miracoli che solo le mani ricche di veri diamanti, ricche di forza e coraggio sanno compiere. Quei piccoli sono ” gli altri” per noi. Sono invece i loro figli, figli di uomini e donne che portano nel cuore la luminosità divina. Sì, il loro cuore è scrigno, scrigno in cui brillano gemme incomparabili: la generosità, l’ altruismo, il coraggio dell’ estremo sacrificio, la convinzione profonda e innata che ” l’altro ” è fratello, anzi più che fratello: sei tu nel momento della debolezza, dell’ inermita’, dell’ impotenza. L’ altro che piange e si dispera sei tu, tu che soffri e chiedi istintivamente aiuto. Gli uomini e le donne che rispondono con tutto il loro essere alla tua innocente richiesta d’ aiuto sono quelle creature che tutti gli uomini di tutte le civiltà hanno da sempre chiamato” angeli”, messaggeri della Pietà Celeste. Sono sempre stati fra noi. Sono fra noi. Ci aprono il loro cuore. Ci fanno vedere il vero volto del Padre di tutti. Quel Padre buono che vede, sente, accorre, soccorre. Maria Coianis non ha pregato invano nella sua commovente lirica.
Maria Coianis chiede amore per accogliere tutti. Maria Coianis ha bontà, luce, comprensione. Sa affidarsi al Grande Tessitore dei nostri destini. Ciò che conta per Maria è affidarsi al cuore immenso di Lui. Ciò che conta per Maria è che tutti i fratelli sappiano quanto è immenso il cuore di Lui. E allora perché esistono persone orrende, persone malvagie, persone che hanno infierito a morte sugli innocenti? Perché il Padre di tutti ha creato figli tanto differenti fra loro, tanto lontani da quella Bontà e quella Bellezza che aveva infuso in tutti? Come è andata perduta l’ innocenza? Perché la donna ha tentato Adamo portando miserie e lutti all’ umanità? Forse e’ l’ invidiosa malvagità della donna che guida la violenza brutale dell’ uomo perdendo entrambi, facendo perdere all’ umanità intera il suo Eden? Possiamo riconquistare l’ Eden perduto? Qual’ è la verità sul mistero del Male? Possiamo veramente riaprire i cuori che si sono cullati senza pietà nell’ odio, nella violenza nell’ olocausto degli innocenti? Tacciono ora gli innocenti. Non possiamo udire la loro voce. Io non posso sapere se l’ innocente ha perdonato. Nel silenzio dell’ innocente la mia mente non trova parole. Nel silenzio dell’ innocente il mio cuore raggela. Nel silenzio dell’ innocente io posso solo pensare che l’ innocente non deve essere toccato. Nel buio della mia anima sulla quale s’ è conficcata la più feroce delle croci, io attendo sospesa. Vorrei, oh come vorrei possedere la luce dell’ amore universale di Maria Coianiz, ma cammino sulle spine acuminate di corone che trafiggono crudelmente. Troppo sanguina il mio cuore. Non v’ è ancora in esso un solo piccolo posto per la luce verso cui tende.
Ti chiese la vedova di Naim di restituire la vita al suo figliolo. Tu, mio Signore, che tutte le cose conosci , le hai restituito il figlio. Io ti ho supplicato per anni di restituire la salute a mio figlio, qualunque fosse il grado di essa che poteva restargli in corpo. Io ti ho pregato poi anche di riportarlo in vita pur essendo consapevole che ero io a dover comprendere il significato della nuova vita cui tu l’avevi chiamato. Ho cercato, ho pregato, ho urlato, ma le lacrime anzichè bagnarmi le vesti restavano in me come dure pietre che laceravano il cuore. Ho girato ad un tratto le spalle al mondo intero, ma non sono riuscita a chiudere la porta della tua casa, Signore. Perché sono sicura che é presso di Te che si illumina di Amore e Pace l’anima bella del mio figliolo. E dico con Maria Grazia Coianiz :-Donami, Signore, occhi per guardare, cuore per vedere.
Fa’, Signore, che le mie lacrime possano sgorgare cristalline e tergere i miei occhi ancora offuscati per lasciarmi vedere il bel volto luminoso di mio figlio e il suo corpo intatto e risanato nella splendida luce in cui l’ho pur visto ai margini del sogno, in quella terra di mezzo che separa due mondi. Lascia, Signore, che il mio cuore possa fluttuare, libero dai macigni che lo prostrano, fino al dolce cuore del mio figliolo per udire quel suo inconfondibile e indimenticabile battito forte e vigoroso che l’ anziano e dolce dottore mi lasciò ascoltare quando mio figlio mi comunicò, con forza e vigore, che lui era con me, sì, proprio vicinissimo al mio cuore, che il suo corpo lì cresceva, che la sua anima da lì già parlava con la mia.
Maria Coianis chiede in fondo ciò che il Signore ha già instillato in tutti, ma molti figli Suoi hanno dimenticato di possedere o hanno perso via via, strada facendo. Il Signore aveva donato a tutti cuore, occhi, orecchie, braccia, mani per servirlo quand’ Egli si fosse presentato sotto le spoglie del povero, dell’ affamato, del senzatetto, dell’ infreddolito, del martirizzato.
Maria Coianis chiede con serena pacatezza ciò che i sentieri molteplici che dobbiamo percorrerere nella vita ci hanno spesso costretti a mettere da parte, dimenticando in un angolo lontano del cuore un aspetto che è parte integrante della nostra natura : la cura verso gli altri. Maria Grazia Coianis ci pone con delicatezza di fronte a radici troppo spesso lasciate disseccare della nostra anima. Maria Coianiz chiede rugiada per quelle radici appassite, soffocate dai nostri vissuti gravosi e da un quotidiano affrettato e lontano dall’ ascolto dei bisognosi. E ognuno si chiede, di fronte alle lacrime altrui, quante volte le lacrime proprie hanno rigato il volto ricoperto dalla polvere del dolore, quante volte esse hanno inzuppato la camicetta fradicia che stringi e stropicci tra le mani nervose, instabili, che non sanno trovar luogo né requie. Quante volte puoi chiedere al Signore di riportati in mezzo ai fratelli, di aiutarti ad uscire dalle spire di solitudine che ti avvolge e raggela in un bozzolo di ghiaccio? Dentro quel bozzolo che si frappone tra te e gli altri,mille volte hai pensato che il bene che hai agito presto svanisce, mentre il male che ti è stato inflitto non ha fine.
Maria Coianis chiede di aprire le porte ai fratelli.
Oltre la vitrea trasparenza del bozzolo di ghiaccio pieno di dolore, lo sguardo percorre gli eventi, i protagonisti, le cose. Perché è successo? Perché la serpe viscida e malvagia ha distrutto quello che il Signore aveva costruito con cura e amore come fanno i Padri buoni e giusti? Perché sotto le sembianze di una donna si celano invidia, lussuria, bramosia, disobbedienza alle Leggi che reggevano l’Eden? È possibile perdere l’ Eden a causa di una serpe e di una donna che ne risputa il Male? Può l’ uomo essere tanto stolto da non comprendere che sotto il miele tentatore si cela il fiele della dannazione per tutti?
Passa il tempo nel mondo e il Male rimane a percorrerne incessantemente tutte le strade. Passa il tempo della vita e il male causato da anime nere rimane, si fa sempre più intricato, gira col vento gelido di tramontana tutti gli angoli degli spazi percorsi, si ripresenta col volto oscuro dei ricordi cupi, si trasforma in attesa, si cristallizza nel pensiero che un giorno pieno di bufera verrà a tagliare con forza indomita il filo nodoso che tiene sospeso un ponte tra le rive opposte.
Quante volte si può cadere nel gelido letargo del bozzolo di ghiaccio? Quante volte il Signore, supplicato, concede di uscirne ancora indenni, ancora preparati all’ ingresso nel mondo che aspetta sofferente ogni briciola che porti sollievo alla sua fame?
Maria chiede umilmente di poter accogliere e soccorrere. Maria è certa dell’ infinita capacità del Signore di riportare ogni creatura di cuore al suo posto nel mondo. Maria è certa di sé stessa, di poter vedere, ascoltare, dare. Maria è certa di poter fare sì che l’ altro comprenda l’ infinita bontà di Dio.
Quante volte vacillano nel mio dolente sentire le certezze che Maria ha consolidato?
Quante volte il bozzolo di ghiaccio mi stringe gelido impedendomi di vedere oltre il buio dell’ anima, impedendomi di sentire oltre lo strazio del cuore?
Eppure il bozzolo ad un tratto si scioglie, lasciando che la mia anima torni in me a riportare l’ antico soffio vitale. È come se dentro quel bozzolo gelido mani sapienti avessero lavorato scalfendo il ghiaccio, donando afflati di tepore, chiamando la farfalla a librarsi.
Sì, la farfalla può ancora volare dentro e fuori sé stessa. La farfalla può ancora volare incontro alla vita, agli altri.
Maria Coianis chiede al Signore la capacità di accogliere ed aiutare gli altri. Esistono al mondo ancora persone che hanno conservato l’ umanità infusa da Dio all’ atto della Creazione. Esistono ancora persone degne di essere chiamate persone. Maria Coianis ci ha donato una lirica sorprendente. È sorprendente oggi incontrare persone vere, genuine, umili, che pensano di non essere all’ altezza del primo compito umano : prendersi cura del fratello. Chi chiede a Dio di aiutarlo ad aiutare i suoi fratelli è già un figlio prediletto, un fratello vicino, un genitore onorato. E di certo tutta la sua vita si è dipanata nel rispetto, nell’ attenzione, nella cura verso tutti. Maria Coianisz ci indica con questa supplica all’ Eterno l’ unica via possibile, l’ unica via che ci rimane per risollevare lo stato di disfacimento e sfilacciamento di una umanità che non esiste. Come può una società tollerare ciò che vede oggi,con incontestabile chiarezza, passarle davanti agli occhi? Come si può accettare che tanti fratelli muoiano nella dannazione della ricerca della loro salvezza? Come si puo’ accettare che tanti muoiano per malattie che si possono invece curare? Come accettare che mani assassine uccidano donne inermi? Come si puo’ accettare che madri sole, abbandonate, snaturate uccidano i loro figli? Perche’ accettiamo ancora e ancora tanto Male oscuro? E’ oscuro il male o si è oscurata la ragione umana? E come si può sperare di veder diventare adulti e responsabili adolescenti e giovani il cui unico esempio fornito dai genitori è la comparsata continua, insipida, vuota di ogni significato, sui social vuoti di qualsivoglia valore?Genitori vuoti, figuranti di una commedia che sta diventando tragedia, genitori che insegnano la dipendenza dal male a figli che , inevitabilmente, non cascheranno lontani dalla vuota ipocrisia che li ha generati, dalla sua subdola e sfrenata violenza che,nel passato di chi di ipocrisia e’ fatto, ha trovato altre forme brutali per esercitare la malvagità. Genitori inzuppati di narcisismo malato,di mera apparenza, di sfrenata prepotenza contro i deboli. Genitori che hanno gia’ provocato tragedie in casa d’ altri e che preparano col loro esempio altre tragedie per tutti, la casa dei loro figli compresa. Genitori il cui unico posto sarebbe la sudicia casa che abitano oscurata dai neri tendaggi di morte che hanno seminato, le cui porte dovrebbero essere chiuse per sempre sicché essi non possano percorrere ancora le strade del mondo poiché lo infangano senza rimedio. Esseri lontani dall’ umanità, ma che non possiamo neppure appellare fra le belve ché le fiere più feroci hanno istinti di protezione e genitorialita’ verso i piccoli e i più deboli. Che genitorialita’ può mai possedere una madre che dopo la sua passata belluinita’ passa il suo tempo a mostrare sorrisi inutilmente sbiancati dal dentista, brindisi, occhi raggrinziti e rugosi, inutilmente mascherati da selfies forzati per tentare di coprire l’identità orrenda agli occhi dei figli e degli sciagurati che non hanno capito s guardano escrivono a quella maschera. Quei figli sono già tra i peggiori , sono già esseri che hanno bisogno della caritatevole mano tesa a raccoglierli dal pantano. Quegli sciagurati per cui son riversati sorrisi fasulli sono autori nascosti e ipocriti di medesime ferinità oppure vuoti esseri che non sanno distinguere bene e male, il sé dagli altri, ciò che serve agli altri da ciò che è ridicola esibizione di sé stessi. Una marea di ” gente” dannosa, che genera danni a ripetizione, che disgusta per l’ abominevole uso che fa di sé stessa. E’ di oggi la notizia di un ragazzo che ha preso a pugni la docente che gli vieta in classe il social, di un altro che denuncia la scuola perche’ interdice l’ uso del telefonino e… via discorrendo. E i loro genitori li appoggiano in toto, anche se alcuni meno spudorati affermano che”non sanno piu’ cosa fare coi loro figli”! I figli di questo tempo innominabile sono i figli di genitori il cui unico obiettivo nella vita e’ imporre la propria squallida figura al pianeta. La soria ci ha gia’ fatto conoscere gente del genere e il mondo pati’ olocausti, guerre, fame, odio, barbarie infinite. Ci avete riprecipitati nella piu’ oscura incivilta’, voi dalla faccia delirante e inutilmente presente su una macchina che doveva portare progresso. Ecco la verita’, la macabra eredita’che lasciate e che oggi a tutti tocca raccogliere. E non potete smettere, dipendete dall’ immagine vostra che vi fissa vuota negli occhi malati.
Maria Coianisz chiede nella sua supplica a Dio la capacità di accogliere, capire,aprirsi a tutti.
Io non sono in grado di accogliere invece quel genere di gente che usa i social come bottega della propria carne perché non riesco a cogliere in essa un nucleo pur minimo di umanità. Tuttavia so bene che sono io nel torto al cospetto dei Giusti e di Dio proprio perché i Giusti sanno aprire le braccia a tutti per aiutare e redimere e Dio ci ha insegnato tramite Suo Figlio la forza del perdono. Eppure non riesco a dimenticare la frase di quel Figlio che nel Vangelo grida contro coloro che fanno del male ai piccoli col loro esecrabile esempio e che meglio sarebbe se costoro si gettassero nel pozzo con la macina legata al collo.
Io posso si’ chiedere a Dio di aiutarmi ad aiutare chi ha bisogno di mani, braccia, cuore generosi perché nulla ha e tutto patisce,ma non riesco ad accettare gli stolti e indegni che si fingono benefattori e sodali affidabili si accostino in qualche modo, magari fotografandosi bislaccamente in scene caritatevoli sulle loro sgangherate pagine social, ai bisognosi, gli ultimi, quelle creature deprivate di tutto che la Pietà Celeste ci affida. Non posso chiedere al Signore la forza di accettare i colpevoli, nemmeno se costoro si pentissero e tendessero la loro mano. La loro, per me, non potrà mai essere una mano. Io so bene cosa è quella che appare mano, so bene cos’e’ quella maschera insana che vorrebbe spacciarsi per volto.
Grazia Coianis chiede capacità di amare tutti i fratelli, capacità di avere un cuore che sia scrigno per la carità, capacità di usare tutte le proprie facoltà per fare ciò che la Pietà Celeste comanda su pietra scolpita col fuoco. Grazia Coianisz è tra i pochi illuminati che hanno interiorizzato il più importante comandamento divino. Tanti, anche fra coloro che sono gli apostoli terreni e i rappresentanti della Pietà e Carità, in verità non hanno la forza o la capacità di elargirla secondo la divina volontà. Forse Grazia Coianiz ha riacquisito quella spinta potente che il Creatore imprime in ogni essere umano all’ inizio del suo percorso esistenziale perché ha saputo superare nella grazia di Dio il dolore più profondo che l’ umanità conosce : la morte del figlio. Forse solo pochi comprendono veramente il significato della morte del Cristo, del Figlio di Dio. Sono, costoro, gli eletti, gli umili davanti a Dio e agli uomini, coloro che sanno consegnarsi alla Volontà che tutto disegna. Grazia Coianiz consegna ogni sua parte alla volontà che detta il Comandamento della Fratellanza. Grazia Coianizs forse riesce ad offrire la sua persona alla vera accoglienza perché la sua anima ha attraversato tutto il percorso dell’immane sofferenza : aprire l’ anima colpita senza timore, aprirne ogni piega, lasciarle sanguinare tutte guardandole con indicibile sofferenza, ma volontà ferma, nella consapevolezza che solo l’ ascolto profondo del dolore, degli errori, delle debolezze possono portare a nuova rinascita, alla catarsi, a nuova vita. Grazia Coianiz si colloca al centro di un percorso personale esistenziale unico e, al contempo, universale. Maria Coianizs si colloca, con umile inconsapevolezza, all’ inizio di un percorso che tutti, dolenti o ancora scevri di sofferenza, dovremmo intraprendere per cambiare noi stessi e questo malato mondo che ci circonda. Maria Coianisz è lì, al primo cippo di quella strada che si chiama Ascolto e Riflessione, è lì ad indicarci umilmente, con pochi altri eletti, il sentiero: sì, è un sentiero sassoso, fatto di pietre spesso troppo aguzze per i nostri piedi abituati a muoversi lesti e frettolosi. È un sentiero che ferirà, forse lacerera’, è un sentiero che aprirà gli occhi troppo sfuggenti e fuggitivi dalle verità scomode che ci ostiniamo ad ignorare nell’ ansia inutile di salvaguardare la nostra precaria quotidianità.
I giorni dolenti. I giorni del silenzio. I giorni dei ricordi. Giorni ormai brevi e ombre lunghe che invitano alla riflessione, alla rilettura dei vissuti propri e altrui, alla rilettura dei racconti di vita appena sussurrati tra i nodi del rimpianto e la velatura del pianto, ai racconti di vissuti acclarati da penna decisa che scava sino a trovar l’acqua sorgiva che tutto rinnova.
Nei giardini della mestizia v’é chi trova la forza di abbellire di fiori,che ormai profumano solo di ricordi, antichi e nuovi avelli, chi altra forza non trova che il pianto sommesso e silente. Chi passa frettolosamente, chi osserva con espressione avulsa e va oltre. Gli esseri umani sono diversi fra loro e reagiscono secondo la loro individualità alla medesima esperienza. V’é nei giardini della mestizia chi soffre e s’ avviluppa su sé stesso impietrito, chi oppone allo strazio il fare pur se lacrime brucianti bagnano fiori e pietre antiche e nuove, chi resta indifferente e non nasconde la sua estraneità,e,infine, chi passa indifferente,ma mostra il volto orribile della finta compassione, della falsa partecipazione, mentre sovente nei suoi occhi balena il lampo empio del malvagio godimento di fronte all’altrui sventura e sofferenza. Credono,questi disgregati esseri con l’anima annerita dalle nere braci del maligno, di non essere riconoscibili. Lo pensano sempre,e da sempre, perché sono da sempre vissuti con l’ animo ammorbato dalle graffiature profonde ed incurabili dei loro demoni. E invece la gente sa vedere dentro i loro occhi ipocriti e famelici; la gente sa vedere dietro i loro sorrisi ostentati ad ogni piè sospinto, al di fuori di ogni logica e senso. La gente sa vedere perché la malvagità ha sempre e dovunque le stesse sembianze. Tanti,tuttavia,si lasciano incantare e trascinare dai suoni di voci flautate, da atteggiamenti ed azioni subdolamente studiati, perché l’ ingannevole Eva ed l’ iniquo serpente non moriranno mai finché giorno e notte si avvicenderanno. Gli stolti incapaci di vedere li seguiranno nelle loro scelleratezze, li appoggeranno persino, incapaci di vedere le lunghe ombre dell’Averno che i malvagi trascinano dietro a sé stessi. Capiranno tardi, troppo tardi anche,forse, per uscire dalla morsa contagiosa. Chi avrà salvato dal morbo l’anima non sempre avrà salvato la sua vita che diversa sarebbe trascorsa se nei dannati non fosse incappato.
Dannati che passano e guardano. Gli occhi falsamente spalancati non ingannano i molti vedenti, perché numerosi sono anche coloro che sanno scrutare nell’ ombra: l’ hanno dolorosamente patita a causa di coloro che hanno fatto di essa ragion di vita. E i molti vedenti li lasciano passare, indifferenti al loro vento carico di tenebra: sanno che il sentiero presto arriverà al muro di confine che non potranno valicare. I vedenti si guardano negli occhi, con la silente comprensione dei vinti, mentre un unico pensiero attraversa simultaneamente tutte le loro menti senza passare attraverso il suono della voce : ” I veri morti, i decomposti da sempre passano attraverso gli avelli che loro stessi hanno costruito per gli innocenti, i deboli, la brava gente. Vanno avanti,ipocriti e compiaciuti. Noi non vi inseguiremo per chiedervi conto e ragione. Il muro presto sarà davanti a voi e non vi lascerà scampo, non troverete più direzioni. Al vostro totale disfacimento accorreranno solo i demoni che hanno guidato la vostra vita. Porteranno con sé solo la nera materia che s’annidava ignominiosa nel vostro cuore.
Il Signore ha donato ai Giusti ingiustamente colpiti e sferzati la forza di affidarsi a Lui, il coraggio di allontanarsi dalla vendetta, il modo di camminare lungo il sentiero che Lui ci dona ancora per aiutare noi stessi e coloro che ingiustamente soffrono infiniti patimenti. Sì, il Signore è buono.
Un ricordo molto doloroso, rivissuto assieme a coloro che mi erano buoni vicini un tempo lontano, mi riporta qui, sulla bella e troppo poco praticata preghiera di Maria Coianis. Maria Coianis esprime un’ integrità di intelletto e di cuore cui tanti dovrebbero guardare prima di presentarsi al mondo e definirsi esseri umani.
Maria Coianis indica, come i giusti e i retti hanno sempre fatto, la strada per stroncare le infamità che percorrono le lande dell’ esisztenza.
Maria Coianisz ci mostra un sentiero che il Cristo rende visibile e limpido da venti secoli, ma che troppi farisei ignorano tuttora con violenta crudeltà. Quanta gente guasta sorride ipocritamente tendendo con la fiacca mano sinistra i doni per i poveri,i miseri,i disperati mentre allunga con la destra decisa lo scatto che lo proietterà falsamente caritatevole, sorridente e buono al mondo intero?
Maria Coianis lascia capire quanto non sia semplice aprire la porta a coloro che neszuno ci ha abituati a chiamare fratelli perché vengono da lontano, parlano altre lingue, hanno la pelle di diverso colore. Se fosse davvero facile tendere sempre e sinceramente la mano a chi bussa, Maria Coianisz non avrebbe sentito il bisogno di cercare nel suo profondo le parole che nessuno pensa mai trovandosi di fronte a genti bisognose ed eventi nuovi,ignoti,frastornanti, disorientanti.
Maria Coianis si sofferma,in disparte,e,nel raccoglimento, riesce a formulare una preghiera nuova, originale, personale, carismatica, una preghiera che l’aiuti ad ascoltare, ad aprire cuore e mani a tutti gli esseri umani in stato di bisogno, non importa con quale nome essi chiamino Dio. La Fratellanza e la Carità non si rinvengono facilmente nel nostro animo ricolmo di infiniti ed opposti sentimenti. Bisogna raccogliere con ferma volontà le forze dell’ intelletto e quelle, profonde, del nostro imprimatur divino. Tuttavia, chi ascolta in umilta sé stesso e dio, riesce a richiamare a sé le energie spirituali che da dio provengono.
E in nome suo si mette all’ opera.
Maria Coianisz non chiede che la carità attraversi social e media, squarci gli spazi discreti entro cui deve manifestarsi. No, perché la carità esibita non ha nulla da spartire con l’apertura al prossimo, l’ appressarsi ai bisogni veri delle genti, ai dolori sconfinati.
Non è scontato tendere con sincerità la mano a tutti gli uomini di buona volontà che si trovano nella sofferenza loro portata da altri. Non serviva altrimenti che una mente forte e lucida come quella di Maria Coianisz invocasse con parole nuove ed inaspettate il Signore, parole che risuonano di ricerca interiore, travaglio, riflessione profonda, discernimento responsabile e coerente. La Carità e la Fratellanza necessitano di riflessione, comprensione di dinamiche complesse ed eterogenee, maturità, consapevolezza, scelta di campo, costanza, affidabilità. Non v’ è spazio per il superficialismo, l’ egocentrismo, l’ esibizionismo, la saltuarietà. La vicinanza ai fratelli deve diventare un modo di vivere.
Ciò che mi turba e raccapriccia, ciò che mi sbigottisce ed inorridisce è vedere,udire,leggere di farisei efferati che danno della bestia a dannati di lingua e pelle diverse che si comportano con malvagità contro i deboli e gli innocenti : incredibilmente vedo,odo,leggo di belve che danno della belva ad altre belve loro pari, come se malvagità, cattiveria, violenza, brutalità, prepotenza, arroganza,razzismo, classismo fossero prerogative di “altri”, di quelli che si trovano dall’ altra parte, qualunque essa sia. Belve da ambo le parti,non v’è scampo. Un’arena traboccante di violenza, questo povero mondo.
Gli ipocriti che postano la loro “carità”, la loro ” vicinanza” , la loro ” fratellanza” sui loro social credono davvero che la brava gente non abbia contezza dei loro comportamenti reali? Mi dà ripugnanza amaramente maggiore la sfrontatezza di talune donne (che tale nome non meritano perché nemmeno le bestie fameliche e furiose per brama smodata si comporterebbero come loro) che si ostinano a presentare ancora la loro maschera fasulla in strada fra gente onesta e degna, sui social, sui posti di lavoro e di comunità per adire i quali esse hanno tanto smaniato per poi bivaccarci comodamente, giocando di malevola doppiezza. Hanno colpito creature innocenti, non lo ricordano questi esseri che mostrano i loro sorrisi da iena? Si sono fatte riconoscere quali sono da molti, lo hanno scordato? Mi chiedo se possono essere considerati uomini i loro compagni, pallide ombre senza nome,onore,dignità. Mi chiedo se i figli e figlie di queste miserande ne siano gli spaventevoli eredi o se hanno capito il pattume in cui sono stati catapultati da queste arpíe dal volto ammiccante e dalle grinfie di rapace dissacrante. Mi chiedo come possano sentirsi uomini e donne le persone che conoscevano le loro azioni e le hanno accolte comunque fra loro,per comodo magari, ma pur sempre in comunità che dovrebbero rendere conto del loro operato a tutti, nonostante la loro inaccettabile arroganza. Mi domando come mai chi incrocia queste misere balzate da uno scranno all’ altro ai quali han fatto perdere ogni credibilità, non sappia vedere subito oltre l’apparenza: l’ipocrisia è evidente al cieco perché di sé appesta l’aria.
Maria Grazia Coianiz parla nella sua preghiera di fratello tradito, ucciso dal fratello. Ebbene, mi domando indefessamente, senza pace, senza pietà per me stessa, come possa accadere tanto scempio sotto gli occhi di tutti! Mi chiedo come mai la comunità civile strutturata non riesca a reagire per tempo fermando l’empietà! Mi chiedo come le arpie possano fingere agli occhi del mondo di non aver compiuto scempio! Con quale coraggio si può tentare di ingannare a tal punto gli altri? Il narcisismo sfrenato é cieco e impudico,si sa, ma pretendere che la gente onesta e per bene non sappia cogliere il bene e il male é luciferina superbia e dissociazione malata e profonda. Evidentemente, comunque, ci sono altri/e che sono,anch’ essi/e loro simili nella bruttezza, nella malattia e nella vigliacca ferocia contro gli inermi!
Maria Grazia Coianiz prega di trovare la forza per saper vedere, udire, dare conforto a tutti. Fra questi dolenti ci sono anche coloro che le fiere hanno portato al dolore senza fine, allo strazio senza confini.Ci sono anch’io.
Donami Signore del cielo e della terra, Signore delle cose visibili ed invisibili,Signore dei giusti ingiustamente colpiti, Signore della Verità,donami perció la forza di proseguire la strada, nonostante tutto. Sovente essa si restringe e si riduce ad un filo di vetri aguzzi disseminato. Sovente tornerei fulminea indietro trascinando dietro di me il sentiero che gli immorali hanno lastricato di dolore per creature innocenti e lo getterei d’acchito sopra di loro : l’uragano e la tempesta che esso spalancherebbe improvviso sui malvagi oscurerebbe per sempre l’aria che ingordamente essi,nel timore degli inferi, respirerebbero avidi,sgomitando come sempre, credendosi ancora invincibili padroni di tutti e tutto.Dannati in terra.Figuranti di carta straccia la cui anima non ha mai potuto prender forma nel loro guscio già guasto al primo battito e s’è appartata negli inferi ad attenderli e a guardare l’inutile odissea terrena di quei fantocci. Burattini vuoti, buoni solo per i fili dei lesti burattinai che li manovrano e da cui traggono ignobile sostentamento.
Donami, Signore, la forza di andare avanti ancora, continuare a far crescere ponti fra cuori sinceri, a crescere con coraggio nel giorno che resta, a trattenere le mani che si stringono nello strazio portato dall’empio, ad allontanare le fiamme dell’ira, a parlare con Te.
Il Signore dona. Dona talenti a piene mani. Ne fa dono a tutti. Pochi li sentono nel cuore. Pochi illuminano la loro strada tenendo la dritta indicata dai doni ricevuti. Tutti gli altri sono già morti dentro. Non sentono vibrare in sé stessi nessun talento, nessuna passione. Non sono in grado di appassionarsi al lavoro che svolgono. Non sono capaci di amare con l’ ardore che rende fiammante la relazione. Persino i figli sono solo incombenza, dovere, mero tributo alla consuetudine. Costoro, che non hanno né saputo né voluto trovare i loro talenti, vivono un sé grigio, informe. Cercano di riempire sé stessi, il loro amaro vuoto, con l’ apparenza, la finzione, la ricerca ossessiva di consensi, di posizione sociale. Tuttavia il vuoto rode. Fra le erosioni dell’ anima si fanno strada i morsi feroci dell’ invidia. Invidia verso coloro che curano i loro affetti prima di tutto con la passione: passione per il coniuge, passione per i figli, passione sincera per gli amici, passione per il proprio mestiere. La passione non sente il bisogno di esibirsi. La passione autentica riempie naturalmente ogni spazio. Chi vive e ama con passione non si guarda intorno. Opera laboriosamente, cercando il meglio per gli altri. È questo il segreto che rende misteriosa la presenza e l’ esistenza delle persone che amano, vivono, credono con passione. La semplicità della passione irrompe come luce fulgente nel buio informe. Ma quanta invidia la cinge intorno! Quanto livore la guarda mentre si muove calorosa nella sua semplice, immensa vitalità. Invidia, livore, rabbia, gelosia, malevolenza presto stringono tra le loro spire la persona che costruisce il cielo. L’iniquo desiderio di distruggere tanta bellezza si fa sempre più stringente. La malevolenza rabbiosa degli incapaci provoca sempre sciagure immani. Forse Dio tiene accanto a sé un posto speciale, luminoso e bello, per coloro che patiscono la gelosia, la rabbia, la violenza degli inetti mentecatti che possono solo specchiarsi in un volto ipocrita, fasullo che nessun sorriso potrà mai illuminare di beltà. L’ invidia è un’ orribile serpe che sputa il suo fetido veleno nei visceri degli alienati sul cui volto si riverbera il male oscuro che li stritola. Quanto male discende sul mondo a causa del nero veleno della serpe gelosa del bene! Il giardino del giusto presto viene violato, oltraggiato, profanato dall’ idiota vuoto e violento. Ma Dio non lascia soli i suoi fiori. Raccoglie presto i più belli e li posa nei giardini di luce dove il male del mondo non può tangerli più e sgualcirne i colori e sciuparne i profumi. Chi ha irradiato luce ritorna nella luce. Sì, come dice Grazia Coianiz, Dio è buono. E ci lascia ancora la possibilità di fare, operare, accogliere, amare. E ci lascia sempre il compito di vigilare, vedere, riconoscere, distinguere e dichiarare la verità.
Il mondo quasi si ferma. Resta come sopito, in attesa di qualcosa, di qualcuno. Il sole fulgido riscalda l’ aria e illumina le prime foglie che già si dispiegano sui rami rinnovati. Nessuno lungo le strade del borgo. Dalle case si sprigionano i profumi dei cibi della vigilia. L’ agnello in crosta richiama alla memoria le attese dell’ infanzia. E ricordo l’ agnello sulle spalle del Buon Pastore, nel dipinto maggiore della navata laterale nella chiesa del paese natio. E penso che il mite si lascia raccogliere, si lascia abbracciare, si lascia condurre. Come si può colpire a morte il mite, l’ innocente, l’ indifeso? Quale cibo porteranno sul desco domani gli empi che hanno colpito gli agnelli, li hanno confinati nel silenzio dell’ eternità? Spalancate le porte degli empi domani. E capirete. Sulle loro lorde tavole non troverete le tenere carni pasquali, bensì le carni pesanti dei giorni privi di luce dell’uggiosa invernata. Il grasso lardo colerà dalle fauci e dalle stoviglie. Non entra la Pasqua nella casa dei ferali empi. Essi non conosceranno mai il Passaggio. Si rispecchiano eternamente nella loro malvagità grondante di dolore altrui. Mai potranno afferrare la mano del Salvatore. Ricusano la salvezza, tronfi di superba stoltezza. Come sono riconoscibili nonostante la squallida maschera ridente! Non esiste luogo per loro. Non suoneranno per loro le campane, domani. Lo splendore della resurrezione non illuminerà l’ uscio degli empi. È un uscio annerito, maleodorante di grasso stantio. È lontano il primo tempo del lungo anno dall’ alito di morte irreparabile che aleggia spaventoso nella fredda casa dei malvagi.
Chiedere al Signore di darci la forza di considerare tutti i fratelli. Chiedere al Signore di aprire indiscriminatamente il nostro cuore. Chiedere al Signore la virtù della Fratellanza.
I cardini della carità il Signore li ha impressi alla nascita al suo figlio prediletto. Tuttavia quanti fratelli commettono sacrilegio? Tanti sono coloro che disobbediscono la Legge divina. Lo fanno in modo deliberato, consapevole. Angeli caduti. Demoni terrifici. S’ aggirano avidi di sguardi tra gli ingenui che ospitano le loro persone senza accorgersi del fetore del loro alito che proferisce antiche ipocrisie, antiche calunnie, I deboli ciechi che li accolgono nella cerchia sospettano talvolta degli ignobili ospitati, tuttavia cedono facilmente alla lusinga del furbesco diniego, del sorriso tanto ipocrita quanto artefatto. Si mostra e rimostra all’ obbiettivo la viscida serpe, incapace di dominare la pulsione di Narciso. Un Narciso malato, ammorbato dalla smania di esserci, tormentato dalla voglia di specchiarsi nell’ immagine miserabile. Tanto smania e si contorce nel tentativo impudico di nascondere tanta vita dissoluta che non s’ accorge di quanti l’ abbiano lasciata distante, dei molti che la rifuggono consapevoli della sacrilega verità. Nemmeno la vecchiaia che avanza impietosa sul volto miseramente artefatto può celare l’ infamia che la segue ovunque. Alcuni l’avvicinano con l’ antico e volgare intento che la miseria umana ben conosce, come sempre, come da sempre. Non può più mentire agli altri la belluina fiera. I pochi che la circondano rimuginano i dubbi che hanno serpeggiato a lungo. Non v’ è maniera per uscirne. Il calice della diffidenza passa di bocca in bocca: può esistere al mondo tanta malvagia ferocia? Chi il mondo lo conosce sa che c’è e si allontana inorridito. Restano sulle foto squallidi sorrisi, squallidi protagonisti. Protagonisti di una farsa lontana da umanità e carità. Protagonisti di una commedia autoreferenziale ormai consunta. I fratelli nel bisogno attendono ancora. Non vogliono essere il malcelato paravento per un’ esibizione circense, una rappresentazione che offende il prossimo, una sagra di vanità ed ipocrisia. Un teatro del Male. La carità non si abbevera di proclami, esibizioni, pellicole fotografiche. Il Signore è carità. Il Signore non fa mostra di sé.
Quante volte ti ho chiesto il dono della salute per chi avevo di più caro al mondo? Infinite. Le fiammelle tremavano nel buio del tempio in cui mi rifugiavo per la supplica. Ombre lunghe di angeli marmorei s’ allungavano sui muri e sulle colonne del tempio, muto, silente. Un profondo senso di pace aleggiava intorno, mescolato al lieve profumo di incenso mescolato all’ odore della cera fusa. Stavo bene colà, mi sentivo al sicuro, mi sentivo accolta e protetta. Sentivo che le mie suppliche venivano raccolte. Mi pareva che sostavo presso qualcuno che sapeva tutto e tutto raccoglieva in sè. Sentivo che non ero sola nel mio seguitare e che gli eventi venivano raccolti e accolti in tutta la loro complessità . Riprendevo la strada di casa con rinnovata speranza. Quanto buio oscurò la memoria di te nel tempo in cui venni trascinata nel terrificante ed angosciante vortice della ripresa di malattia. Ti persi. Non riuscivo a pensare che a lui. Quando ripensai a te troppi eventi s’ erano succeduti ed affastellati nel tempo greve che dovetti attraversare. Mille e ancora mille volte pensai che meglio sarebbe stato se il mio essere svanisse nel nulla, nel vuoto, nel niente. Ma il mio percorso non si è fermato. Ho proseguito stanca e con l’ anima lacerata. Talvolta torni in mente come ti sentivo nella speranza. Rifletto. Non puoi essere a nostra somiglianza poiché ciascuno ti vuole a modo suo, questo l’ ho capito. Ti penso e sento che il mio pensiero é comunque compreso , comunque accolto. Non riesco più a pregarti, solo la mente contiene un’ incessante supplica che non ha le parole , é muta. Eppure non mi sento sola. Sento che posso ancora appoggiare la mia anima ad un calore antico e presente. Alle volte mi chiedo se si tratta del mio amore per chi ho oppure se si tratta del tuo amore per me. E ripenso a tutte le persone che mi hanno in vario modo indicato la direzione in cui guardare, credere, sperare. Non riesco a chiederti nulla. Donami, nonostante tutto, le parole per parlarti.
Donami Signore…Donami Signore…In certe giornate buie, in certe notti senza luce di stelle le parole risuonano incessanti nella mia mente. Donami Signore la forza per prima perché la mia anima e il mio corpo non vogliono più ancorarsi al presente e al quotidiano. Donami Signore, subito dopo, la capacità di guardare con gioia pura, scevra dell’ angor struggente della nostalgia, i momenti felici del passato. Fa’ che io ritrovi fra le molteplici ed infinite pieghe del tempo che ho percorso solo quelle che celano gli attimi di grazia raggiante che hanno conquistato l’abbraccio dell” eternità. La luce che inonda quei ricordi non s”affievolisca ancora nel rimpianto ardente di un affetto totalizzante. Lui esisteva da sempre. Da sempre l’ho cullato tra le braccia. Da sempre l’ho stretto al petto per notti lunghe e magiche sussurrandogli le ninne nanne più dolci che il cuore dettava. Era l’ incarnazione dell’Amore che mi univa per l’eternità al mio uomo. Lui era tutto per noi, sì per entrambi, sì noi due, perché anche l”amore del mio uomo viveva nel sogno di lui. E con quanta grazia lo accolse fra le sue forti braccia. Con quanta grazia posò il primo bacio sulla sua guancia rosea e perfetta. Con quanta grazia entrambi si strinsero la prima volta la mano. Sentivo nel cuore e nelle membra tutte il calore che quella grazia sprigionava intorno. Era la Grazia Eterna che aveva preso forma e sostanza intorno a me, in me. Ho vissuto a lungo riscaldata da tanta grazia. La rivivo come allora, tuttavia sovente il languore della carne sofferente offusca il sentire. Donami Signore la grazia di ricordare il mio tempo migliore in tutto il suo splendore. A tanti fai dono di una lunga vita tranquilla, scevra dalle tragedie e dalle infelicità che invece straziano altri, meno fortunati. Donami Signore la luccicanza dei miei ricordi. Ne ho bisogno come quando lui era in vita, ne ho bisogno per guardare avanti. Ho bisogno di risentire ora lo stato di grazia che mi donasti un tempo per continuare lungo il misterioso cammino che hai tracciato per me.
La bruma appare improvvisa oltre il vetro dell” auto che guido con malavoglia nel traffico affrettato della sera che incombe. Penso che non può essere bruma, non può essere arrivata di già, di colpo. Pulisco col palmo della mano il vetro davanti a me, ma inutilmente m’ affanno a cancellare ciò che non c’è. La bruma s’alza dai prati incredibilmente ancor verdeggianti, s’alza dai cespugli fitti del bordo strada, s’alza dall’asfalto già raffreddato dal repentino tramontare del sole. Il cielo è d’un turchino luccicante che sfuma in un tenero violetto verso l’orizzonte ampio che mi circonda. Una stretta al cuore ed è già affanno. I pensieri si susseguono rapidi nella mente, ne posso fermarli. Alle volte risento il mondo com’ era un tempo, il tempo della tua vita. E m’assale improvviso un senso di colpa infinito; come posso provare ancora io il senso struggente della bellezza d’un tramonto ? Come posso io ancora amare di amore materno e di amore muliebre se tu non sei più nella tua stanza, nel tuo giardino, nella strada che corre incontro a questo meraviglioso tramonto? Fatico a riprendere le briglie del mio sentire. È facile per la disperazione afferrare il mio cuore. Penso alle madri che in vario modo hanno perso la loro creatura. Penso alla quotidianità che anch’esse vivono, nonostante tutto. E penso alle limpide parole di una poetessa che ha saputo trasfondere il sentimento della maternità ferita sulla carta, donando un senso d’ infinita dolcezza alle immagini che concretizzano momenti laceranti. Maria Grazia Coianizs insegna un percorso nel tempo stesso in cui lei stessa lo percorre. Maria Grazia Coianiz indica una strada. Mi sento ancora padrona di me, dei miei sentimenti e pensieri. Riposo lo sguardo sul giardino che profuma lievemente di seccume. Rivedo le tue corse fra i fusti delle delicate betulle. Risento le tue grida gioiose. E una marea di momenti felici sfila davanti ai miei occhi. Sento il clacson insistente dei vicini. Sono ferma sullo scivolo, di fianco al giardino. Guardo ancora per un attimo il manto d’erba appena rasata, le fronde delle betulle immobili nel buio che cala intorno. Ingrano la marcia alzando lo sguardo al cielo di velluto. Già luccica la prima Stella accanto all’ elegante falce di luna. M’ accarezza tiepida l’aria della sera. La luce calda della finestra della mia cucina mi dice che i miei uomini m’ attendono per la cena. Sarò fra un attimo con loro, nell’intima gioiosità del desco familiare. Sarò fra un attimo con te. Tu sei sempre con noi, io non devo rammaricarmi del mio sentire.
Nel giorno del ricordo m’ appresto a vestirmi come a te piaceva. Con le diverse sfumature del rosa mi accingo a venire al tuo sepolcro che ho di già preparato a festa. Il rosa antico sulla mia camicetta. Il legno di rosa sui miei pantaloni. Il rosa dell’ alba sul soprabito che riscalda i miei visceri intirizziti Per quanto io ritocchi di rosa di fiori di pesco primaverile le mie guance, esse si riflettono pallide nell’ inutile specchio. È lontano il tempo in cui il mio volto splendeva dei colori che la natura gli aveva donato, generosa ed accurata. È lontano il tempo in cui i nostri occhi si guardavano ridenti, illuminati dalla smeraldina luce dei prati d’aprile. Guardo il tuo bel volto incorniciato da una sottile lama d’argento. È così dolce e mesto il tuo sguardo. Mi pare che voglia rassicurarmi, come facevi sempre prima di uscire di casa. Sapevi bene che la mia pena s’ingigantiva a dismisura e non mancavi mai di dirmi:- Non preoccuparti, mamma.- . Le parole tue arrivavano come un balsamo diritte al mio cuore. Eppure mai la morsa feroce dell’ angoscia lasciava il mio petto. Non conosceva più il mio petto il sereno fluire del respiro. Tutti i miei sensi erano costantemente allertati. Una madre non sbaglia. Una madre sente con un senso che non ha nome perché non può avere nome la profondità d’un mistero. Il tempo s’è fermato sul tuo volto affilato e luminoso. Sento ad un tratto il richiamo di tuo padre che mi cerca sollecito. Affe6rro la sciarpa in voile dalle incantevoli, innumerevoli sfumature di rosa che tu m’ avevi regalato al mio quarantesimo compleanno. Sento intorno a me il lieve profumo di pulito che t’accompagnava sempre. Si scalda all’improvviso il mio cuore. Sollevo il grande vaso di ciclamini rosa che la fioraia ha confezionato con una stupefacente carta dalle infinite sfumature di rosa. Tuo padre me lo toglie delicatamente dalle mani dicendomi di non affaticarmi, di tenermi ben stretta allo scorrimano della scala. Fuori il cielo è tutto un manto di colori dalle mille e ancora mille sfumature di rosa. È tutto come piaceva a te: i ciclamini, il mio abito, il cielo. Fra un attimo sarò dove so che sei in qualche altro modo, un modo in cui tutti saremo, un modo in cui si concretizza un accudimento, una cura delicata ed attenta, totale, aggraziata. Chi resta ha bisogno dei fiori, dei colori, del candore delle pietre, della lucentezza dei marmi. Nessuno può sapere se anche coloro che abitano la nostra anima abbiano o meno il bisogno di tanto. Come scrive Maria Coianisz in una sua illuminante poesia, la vita vince, vince sempre. La vita c’è oltre la morte, oltre il dolore, oltre l’ annientamento. Non sarà la Festa dei Morti domani, no. Domani sarà un altro giorno di Vita, vita vissuta, vita pensata eppur vita.
Piove. Il vento soffia freddo e punge le mie guance pallide. Il petto rabbrividisce sotto la sferza delle raffiche che soffiano dai monti poco lontani e di già incappucciati di bianco. Stretta nel cappotto mi chino ripetutamente a togliere dal tuo bel ritratto le gocce gelide della pioggia. Non c’è nessuno nel camposanto oggi. Tutti coloro che mi fanno solitamente compagnia in quest’ ultimo lembo di terra ai confini della città sono rimasti a casa, al caldo. Li conosco bene e so che sussurrano le consuete preghiere davanti ai ritratti di coloro che hanno ingiustamente perduto. Immagino il loro volto sofferente, l’ ardore delle Preci ancorché sussurrate, le lacrime che scendono calde e copiose dagli occhi dolenti. Quante volte si sono rivolti a me dicendomi con voce flebile e tremula di pianto:- Perché il Signore non mi prende con sé? Perché non mi porta da chi attendo bussi alla mia porta e si risieda alla mia tavola?
Nessuno riesce ad accettare perdite impossibili da accettare, nemmeno i più mansueti, nemmeno i migliori. Piove. Soffia il vento. Fa freddo. Non riesco a staccarmi dal tuo bianco sepolcro. Non accetto nemmeno io. Mi sostengono le parole di Maria Coianis:- Donami,Signore.
Sì, donami Signore la forza di capire che il Signore è buono e sa come portare al fine che solo lui può conoscere la tragica sofferenza di chi è andato già e l’immane sofferenza di chi resta.
Maria Coianisz scrive che il Signore è buono. Io ripercorro le parole di Maria e ritovo in esse i bisbigli delle mie amatissime nonne, delle amatissime suore del paese natio che si prendevano, solerti e serene, cura di nugoli di bimbetti: – Il Signore è buono, sa cosa fare, sa cosa metterci sulle spalle. Sa cosa possiamo soffrire e come potremo salvarci dalla disperazione. Prega sempre il Signore perché lui non ti abbandonerà mai.
Risento nel gelido vento le parole antiche delle nonne,delle suorine, di Maria Coianis. Il corpo pare ritrovare all’improvviso un fiotto di calore. Accarezzo il tuo bel volto e la mente va ad una cameretta in cui ti cullavo finché il sonno ti coglieva e ti sistemavo al caldo sotto le coperte del candido lettino. La mente va alla pioggia fredda che batteva insistente sui vetri sicuri della tua calda cameretta ed io cominciavo la delicata nenia :-Quando piove lento lento e fa freddo e tira vento…
Tu, piccino mio caro, piccino mio soffice, piccino mio felice, rispondevi pronto e memore, esente da esitazione od inciampo alcuno continuando la nenia fino alla fine. Come sbalordì tuo padre quando gliela recitasti tutta la nostra nenia. E ti riempi di baci e ti strinse al petto più e più volte. Non sentivo mai freddo allora. Ero sempre con te. Mi riscaldavi il cuore e le membra, anche se fuori pioveva, anche se il vento sibilava con la sua voce gelida. Sento freddo ora, un freddo che raggela i miei visceri, un freddo che nessuna brace può scacciare. Le foglie mulinano nell’aria, fradicie e impazzite. Ecco, ti rivedo alla finestra con la piccola mano a battere sul vetro tentando di afferrarle. I tuoi occhi erano verdi come lo smeraldo lucente del fogliame che ancora insiste sui gelsi tardivi. Un cigolio improvviso m’ avverte che il custode è arrivato come ogni sera. So che attende rispettoso e silente accanto alla cancellata. Mi affretto a toccare il tuo bel volto ancora una volta. Bisbiglio :
-Ciao, amore mio, torno domani.
Mi affretto perché non è corretto lasciare che il custode aspetti sotto la sferza del vento, sotto la pioggia che insiste fredda, sotto questo cielo rigonfio di nubi scure che incombono minacciose. Quando passo accanto a lui l’ uomo mi saluta con la consueta mestizia. È già buio. Le luci del viale si riflettono nelle pozzanghere. Mi affretto all’auto. Una volta acceso il motore mi giro a guardare ancora il tuo candido angelo che custodisce il mio dolore e la tua innocenza. È lì, silente e mesto come la prima volta, il tuo candido angelo custode. Lo prego e la preghiera a lui mi riporta alla mente la preghiera al Signore. ” Donami,Signore. Donami Signore la forza di pensare che sei buono, che tieni nella tua luce il mio amore, che tieni per me un posto vicino a lui, che quel posto sarà per l’ eternità.
Immagini inusuali di acqua che ricopre e nasconde nella minaccia lo splendore di una città bellissima. La mente va a tutte le volte che l’ho vista nel sole, luccicante di mare e incantata nella sua opulenta bellezza. Rivedo la folla che si stringeva intorno a noi sul traballante vaporetto. Io stringevo forte sul mio ventre le mani tue e di tuo fratello, preoccupata che poteste svanire in quella ressa, preoccupata che quel mezzo che dondolava e sbuffava potesse affondare. Dicevo a tuo padre che temevo un disastro, temevo di perdervi, temevo un evento come in “Cassandra Crossing””. Ricordo ancora il forte abbraccio di tuo padre che ci cingeva tutti e tre, sorridente e protettivo. Ricordo il calore delle sue braccia, del suo corpo. Ricordo che la mia mente e il mio petto scioglievano pian piano i loro nodi e tornavo serena. Vi stringevo tutti e tre ancora più forte e ridevo poi con voi degli scossoni e dei soprassalti di quel vaporetto incredibile. Ricordo la gioia di sbarcare a terra, di fermarmi con voi alle prime variopinte bancarelle. Come ci divertivamo a misurare cappelli d’ogni foggia e colore. Quanta gioia nei vostri occhi di fronte alle meravigliose palle di vetro che lasciavano rotolare magiche piume di neve su gondole in miniatura. Risento i vostri gridolini di gioia che accompagnavano i nostri passi mentre andavamo incontro alla città di cui vi avevo tanto parlato, di cui vi avevo descritto tutto il descrivibile. Le vostre manine che lanciavano il granoturco ai piccioni, la vostra inaspettata fuga all’interno della Basilica e il vostro muto stupore di fronte ai bagliori d’oro che illuminano quello strano luogo d’ombra e mistero. Rivedo come fossi lì il cangiare di luci e ombre. Risento come allora il senso profondo dell’unione con il sacro. E come allora sento il bisogno intenso di comunicare, di pregare. So che pregai ardentemente il Sigore allora, con forza. Gli chiesi di proteggervi, di darvi salute e felicità, di donarvi la grazia di una vita semplice e serena. Così non è stato. Penso, come faccio spesso ormai, se sia il Signore che dà e che toglie e perché mai a te, a me,a noi ha tolto un percorso usuale. Penso ai molti che mi ripetono che il Signore non interviene nelle umane vicende, che anzi e ĺì per accoglierle insieme a noi, per aiutarci a sopportarne il peso. Penso alle parole di Maria Coianis che ci dice di operare nel mondo per aiutare le persone a comprendere che il Signore è buono. Io non so se mai ho operato con questo scopo. Tuttavia vorrei tanto udire parole che leniscano il mio cuore straziato, mi riscaldino e rendano inamovibile la mia speranza di ritrovare la mia creatura. Forse la grandezza e la bontà del Signore risiede proprio nel donare alle persone disperazione e speranza. Forse la bontà del Signore risiede proprio nel lasciarci accanto le persone con cui ricordare, con cui amare ancora chi non è più con noi, ma risiede, in una nicchia luminosa e calda, dentro ciascuno ch’ebbe per caro al cuore. Come scrive Maria Coianisz, il fratello tradito, tormentato, ferito veda negli occhi dei giusti che il Signore è buono.
I tetti lasciano ormai scivolare ombre scure sul manto stradale, né le luci dei lampioni affievoliscono il buio del cielo rigonfio di piogge. È lontana da me la calda estate, i cieli azzurri e brillanti. È lontana la mano del figlio che stringevo nella mia con la speranza nel cuore. Nel tepore ovattato della stanza tutto sembra lontano, irreale, vissuto in un lungo sogno che sogno ancora. Passano davanti ai miei occhi le immagini irreali di Venezia che erge i suoi archi di pietra antica sopra acque minacciose. Un improvviso languore mi prende il petto. Succede sempre quando rivedo i luoghi che ti hanno visto vivere, gioire, patire. Venezia ritroverà il suo splendore ed io tornerò a Venezia per ritrovarti anche fra le sue calli, le sue bancarelle, i suoi piccioni. Comprerò come sempre una magica sfera di vetro in cui rivedrò come allora i tuoi occhi stupefatti ed incantati. Sì, il bel tempo, i bei ricordi, la sensazione che sei anche fisicamente tornerà ancora. Non è solo una speranza, è certezza ciò che pervade il mio sentire. Ha ragione Maria Coianis: il Signore è buono.
Donami, Signore, chiede accoratamente Maria Coianis. Donami, Signore, la forza di far comprendere agli altri che sei prima di tutto buono, chiede Maria Coianisz. Il Signore è buono dunque. Questo ce lo insegnano tutti i credenti autentici. Mi domando sovente come potrebbero sopravvivere alle tragedie umanamente insostenibili le persone che le subiscono. Mi è chiaro che solo l’intervento inspiegabile di un Essere dotato d’infinita e potente bontà può riuscire a far sopravvivere anche per pochi attimi coloro il cui cuore si schiantò in un attimo rompendosi in infiniti cocci che nessun medico potrà più ricomporre. Mi chiedo come sono sopravvissuta a tanto schianto, a tanto dolore. Vado sovente con la mente al passato, a quel giorno di novembre così simile a questi giorni grevi di maltempo. Ricordo che uscii di casa col solo caffè, il solito, poco zuccherato. Ricordo che vidi passare davanti a me una collega, ma la visione di lei è strana, come onirica. Non ricordo la strada che percorsi con l’auto, nulla dei tanti incroci attraversati. Nella mia mente c’era la strana visione di lunghi rami di gelso con le gemme di un brillante colore smeraldo. I rami battevano sul vetro del cruscotto. Ricordo le urla di un giovane uomo che invitava a sbrigarsi alcune persone indiste che s’ affrettavano davanti al portone della piccola clinica della mia cittadella. Ricordo una visione nitida e spaventevole: ero in piedi, così come vestita in quel freddo e greve giorno di novembre così uguale a questi miei giorni , e mi specchiavo in uno specchio nell’ingresso della clinica: la mia guancia sinistra grondava sangue, e il sangue macchiatva il mio bel cappotto lungo, proprio sul davanti, lungo il petto sinistro. Vidi la mia mano sinistra poggiarsi sulla maniglia della porta a sinistra , la porta del pronto soccorso della piccola clinica. Ricordo la difficoltà del risveglio, la terrificante sorpresa di non ricordare il mio nome. Lo ritrovai nella mente quando la mente cercò il nome del giorno corrente e pensai che, dunque, quello stesso pomeriggio sarebbe venuto da me il mio amore, il mio uomo, e proprio pensando al suo bel nome ritrovai il mio. Ricordo poi lo spazio di un’ambulanza, il volto preoccupato di mio padre che mi seguiva. Ricordo tanti camici bianchi ad un tratto intorno a me. Ricordo le grida;-Cinquanta …quaranta… Va… Se ne va…La perdiamo…Presto…Presto…
Mi svegliai che ero allettata in una grande stanza tutta bianca con diversi letti candidi davanti a me e letti candidi di fianco a me. Diverse donne mi parlavano sorridendo e mi dicevano :- Bentornata, bentornata. Capii che avevo avuto un incidente con l’auto e che ero stata ricoverata all’ ospedale maggiore della città più vicina. Fui dimessa in breve ed in breve tempo mi ripresi completamente. Mai più ho scordato le strane immagini di quella scura mattina di novembre. Perché avevo visto sul vetro del cruscotto rami di gelsi che non c’erano? Perché mi ero vista con la ferita e il sangue che effettivamente avevo addosso in uno specchio che non c’era? E che se anche ci fosse stato non avrei potuto guardare perché al pronto soccorso ero arrivata totalmentente incosciente e distesa su una barella. Perché avevo visto il mio salvatore che disse poi di avermi raccolta da dentro l’ auto e di avermi portata a braccia nella sua per non perdere tempo a chiamare i soccorsi poiché il mio battito cardiaco era flebile e non lasciava altra scelta. Non volli andare nemmeno a ringraziare quell’ uomo pieno di coraggio e senso di responsabilità che mi aveva salvato la vita che stava misteriosamente svanendo in quella fredda mattina di novembre. Non ebbi la forza di sentirgli raccontare che avevo ormai intrapreso un viaggio che il suo impeto e forse Dio avevano interrotto, chissà perché. La mia automobile era distrutta, il motore davanti tutto abbandonato sui sedili anteriori. Mi prese uno strano e spaventoso senso di gelido in tutto il corpo quando mi portarono a vedere l’auto. Era grande l’ incredulità di tutti, medici compresi, sul fatto che non mi fossi fatta praticamente nulla. Eppure io non dimenticai mai quelle strane visioni. Esse sono tornate prepotenti alla mia memoria dopo che tu mi hai lasciata, amore mio infinito. Lessi, nel tempo, di tante e diverse esperienze di questo tipo. Ne ho tratto l’ idea che la vita, o il Signore, mi abbiano in qualche modo concesso di vedere ciò che accade ai limiti, in una terra di mezzo che separa la vita e la morte. Mi dico che forse non avrei avuto la forza di sopportare tanti anni di mostruosa malattia, né il tuo feroce distacco se in me non ci fossero quelle vivide visioni e le intense sensazioni di quel lontano giorno di novembre. Non lo so. Non so cosa mi accadde. Alle volte penso che i medici invertono cause ed effetti: loro dissero che svenni in auto per un inspiegabile calo pressorio. Certe volte io penso invece che la mia vita, chissà perché, fosse giunta allora al capolinea e che qualcosa o qualcuno l’abbia riportata a me, per qualche fine. Non lo so. So solo che la tua amata presenza era con me, figlio mio immenso, quando due anni or sono, lungo fredde giornate buie come queste, la vita stava di nuovo lasciandomi e solo la tua intensa presenza ai margini d’un sogno che sogno non era riusci a farmi compiere le azioni corrette per salvarmi. Eri con me ed inconfondibile era l’intenso profumo di un albero dalla folta chioma in cui mi trovavo immersa a guardare il luogo più amato della mia infanzia. Non ti ho visto allora, né ho udito la tua bella voce parlarmi, tuttavia eri presso di me in quella strana e consueta ormai terra di mezzo in cui io e te ci ritroviamo. Appena sveglia dissi a tuo padre cosa doveva fare per me. E fui salva. Con fatica sono ancora qui e ancora i medici si chiedono perché sono stata tanto male, ma soprattutto perché sono sopravvissuta. Non lo so. Ci sarà un perché da qualche parte. Forse semplicemente, come dice Maria Coianis, il Signore è buono.
La notte s’allunga sul viale crepitante per le prime brinate. Un respiro di freddo mi attraversa il petto. Rivado con la mente al passato, un passato che mi sembra sospeso in un tempo eterno, un tempo che mi pare di attraversare ancora e ancora, all’ infinito. Tu aspettavi il mio rientro al suono delle note sulle quali ti esercitavi quotidianamente. Correvo rapida lungo la gradinata che mi portava al silente cortile su cui si affacciavano le luci delle nostre imposte. Ave Maria… Ave Maria… ripeteva la mia mente invocando l’intervento della Madre Celeste su di voi, figli miei. Avevo sempre il cuore in gola. Avevo sempre paura che fosse successo qualcosa. Avevo sempre paura che voi aveste timori di quei momenti in cui io non potevo essere con voi. Lavoravo, e molto. Non mi risparmiavo. Avevo alto il senso del dovere, ma nella mia mente eravate voi il mio primo dovere. Tuttavia dovevo talvolta lasciarvi, lasciare che voi vi dedicaste ai vostri doveri e ai vostri hobby. Mettevo in sicurezza ogni andito e vi avvertivo della mia uscita raccomandandomi alla vostra responsabilità. Capivo bene che non volevate più essere inutilmente badati, come da piccoli e mi allontanavo per poco, il necessario, convinta delle vostre rassicurazioni. Eppure l’angoscia del lasciarvi anche per breve tempo mi stringeva sempre il petto. Ave Maria… Ave Maria risuonava la mia mente delle antiche preghiere che ripercorrevo per voi, figli miei adorati. Correvo verso la nostra porta e udivo il delicato suono del tuo pianoforte, figlio che abiti sempre il mio cuore. Le note del tuo pianoforte risuonavano fin nel cortile ed erano gocce di balsamo . Ogni angoscia abbandonava il mio petto. La mia affannosa corsa si quietava ed infilavo le chiavi di sicurezza, ad un tratto rasserenata. Il suono del tuo pianoforte riempiva all’improvviso tutti i miei sensi: eravate nelle vostre camerette, eravate al caldo, al sicuro tra le mura della nostra casa profumata dalle pietanze che preparavo alacremente sempre per tempo, con cura. Mi sentivo immersa nel tepore, mi sentivo protetta, mi sentivo felice mentre vi dicevo che ero a casa, mentre preparavo solerte la cena. Poi stavamo tutti insieme, si cenava stretti stretti in cucina al calore delle pietanze semplici e sostanziose, mentre i discorsi fluivano leggeri fra voi e vostro padre. Nessuna ombra aleggiava allora sul desco familiare. Talvolta, tuttavia, chiedevate spiegazioni ulteriori sulle motivazioni che ci avevano portati lì, in una grande città. Ricordavate il prato del nostro villino al paese natio, gli spazi vostri , i vostri giochi, i compagni fra cui eravate cresciuti. Ricordavate tanto del paese che vi aveva visti nascere. Ricordavate perfettamente le azioni terribili che quei due figuri di cui non ricordavate il nome avevano compiuto contro di voi, contro le vostre piccole ed indifese persone, contro i vostri sogni innocenti. Ricordavate il disagio di dover dormire troppo sovente a casa dei nonni poco lontani. Ricordavate la mia fatica nel difendervi e garantirvi spazi di gioco sicuri, difesi dagli attacchi verbali osceni contro di voi e contro i vostri genitori colpevoli solo di amarsi e di avervi e di tenervi con infinito amore. Non capivate il perché di tanto male. Ma era chiaro a tutti quelli che ci circondavano quanta invidia vibrava nel grembo dissacrato di una donna fedifraga e sterile, volutamente sterile per essere libera di infierire. Era chiaro a tutti che una rabbia viscerale potente quanto fonda dominava la mente e le azioni di un uomo tradito alla vigilia e poco dopo le nozze. Due persone orribili che gli uomini di legge tentarono di placare, ottenendo invece la bieca astuzia degli efferati carnefici. Furono i genitori dei vostri compagni di allora a disperarsi per voi, per noi . Dicevano che mai avevano visto abbietti di tal fatta, dicevano che era opportuno portarvi altrove, portare in salvo la nostra famiglia. E, appena potemmo, vostro padre ed io lasciammo con voi la “nostra casetta” come voi dicevate sempre. E voi doveste lasciare allora quel nido di affetti che il tempo e la cura avevano avvolto intorno al nostro nido. Quello strappo rimase nell’ animo di tutti noi. Fu determinante nello sviluppo della malattia tua, figlio mio innocente che mai nessuno avrebbe pensato cadere sotto i colpi di tanto male. No, nessuno comunque avrebbe pensato che avessi ceduto proprio tu, così sereno, così maturo, così responsabile. Ave Maria… Ave Maria… La mia mente snocciola la preghiera che allora sgranavo col cuore stretto dall’ angoscia di perderti. Ave Maria… Ma per quanto la mia mente ripeta le parole di una preghiera tanto percorsa, il cuore non si stringe più intorno alle parole. L’ anima piange ristretta attorno alle immagini di quel lontano e sempre più prossimo passato in cui io rientravo in un nido ancora pieno di luci, colori , suoni. Nessuna voce mancava allora. Tutto è dentro di me. Tutto mi segue ovunque e comunque. Ma tu, figlio mio sei solo nei pensieri. Tu, figlio mio dolcissimo, non percorri più le scale della casa che abitiamo. Ave Maria… Ave Maria… vorrei chiederLe di portarti qui, fisicamente vicino a me, sicché io possa accarezzare il tuo volto luminoso, possa prenderti le mani delicate e baciarle. Ave Maria… Ave Maria… Il giorno declina rapidamente. Ho viaggiato nei luoghi luminosi della mia mente. Riguardo il cielo che ancora imbrunisce . Si affaccia un’ altra lunga notte. Non sarà riscaldata dal tuo respiro leggero, figlio mio. Non sarà illuminata dalle lucine che ti rendevano meno pauroso il buio. Ma nei miei lunghi sogni tu verrai per avvertirmi di eventi che non conosco ancora. Sei ancora con me. Vegli su di me. Vegli su tutti noi. Ave Maria… Ave Maria…
IL maltempo insiste a tratti uggioso, a tratti intenso. Nubi grevi insistono sui prati verdeggianti ancora. Il silente prato che ti custodisce è tappezzato di piccola e sottile erba azzurrina : spettacolo incredibile di questo mesto natale. Ho acquistato le rose di natale per te, ma non le posso portare sul bianco tuo sepolcro. Aspettano timide e belle in un angolo riparato del terrazzo che il cielo schiarisca, torni l’ azzurro, si riaffacci il sole. Sono candide le rose di natale, candide e delicate com’eri tu. Guardo ogni momento oltre il vetro di questa casa che pare aspettare il tuo ritorno. Guardo le gocce di pioggia che tempestano di brillanti le vetrate. Non posso ancora portarti la rosa di natale. La pioggia battente sciuperebbe i suoi candidi petali, le folate improvvise dello scirocco li spezzerebbe. È così che ti sei sciupato tu, amore tanto amato. La devastante invidia di una donna nei confronti di un nido felice, la rabbia repressa di un uomo tradito quasi davanti all’ altare e ripreso per stolida convenienza dopo che tre comunità avevano assistito allo scempio del suo onore, hanno colpito a morte te figlio mio piccolo e sensibile, delicato come una piuma. Siamo fuggiti da quei due vili aguzzini che s’accanivano contro due cuccioli. Siamo volati verso una vita nuova, lontano dalla loro infida cattiveria. Tutti ci consigliarono di andare, tutti fecero il possibile e l’impossibile per facilitare la nostra partenza e il successivo insediamento. Siamo stati bene poi, tra vicini e compaesani accoglienti, sereni, affabili. Avevate tanti compagni di gioco. Tuttavia alle volte tu rimpiangevi i tuoi compagni di scuola, la tua maestra. Noi e i nuovi vicini cercammo di fare del nostro meglio per il tuo benessere e vivemmo con la consueta quotidianità la vita. Io m’ accorsi tuttavia che qualcosa, dopo tre anni, c’era nel tuo animo. Il medico rassicurò, i docenti non facevano che elogiare le tue qualità. Quando la tua malattia si manifestò tutti facemmo del nostro meglio, intensificando ogni cura. Ci riavvicinammo alle famiglie e al nostro paese, seppur lontani dai due aguzzini. Tuttavia la malattia avanzava inesorabile. Corse, cure, curanti. Anni di tribolazioni. Anni che dovevano essere i migliori della tua vita. Hai lottato, abbiamo salito le cime più tempestose e guardato gli abissi più spaventosi. La malattia talvolta è regredita, ma non ti ha lasciato mai. Hai sofferto l’ indicibile, abbiamo patito l’ indescrivibile. Tutte le nostre famiglie hanno sofferto molto. Era una grande famiglia, la nostra. Dopo di te se ne sono andati come neve al sole zii e cugini. La gente mi diceva che nelle famiglie vere queste cose succedono. Qualcuno m’ insegnò che ” famiglia grande ombra grande fa”.
Tuo padre ha improvvisamente portato in casa la candida rosa di natale che ho comprato per te. Fuori piove violentemente, la pioggia colpiva copiosa e furente il vaso delicato e bello della rosa di natale. Natale verrà ancora, e anche se quel giorno pioverà rovinosamente porterò da te la rosa . Mi alzo e mi avvicino a tuo padre. Affondo delicatamente il viso tra i fiori, Hanno un profumo molto lieve, fresco, appena percettibile. Mi ricorda il tuo odore, mio grande, immenso amore. Di te, talvolta io percepisco l’ odore leggero, buono, delicato. Maria Grazia Coianisz racconta l’ odore dei gigli rimasto con lei, quei gigli che adornavano la stanza dell’ ultima attesa. Io ho con me il live sentore di te, figlio. Per quanto ricopra il tuo bianco sepolcro di fiori sempre diversi e diversamente profumati, io sento con me il tuo odore. Alle volte, percependolo, gli occhi si riempiono di lacrime ed il cuore di un’ infinita nostalgia. Maledico allora sorte e destino, maledico chi ti ha fatto tanto male. Chiedo a Dio giustizia. Poi, quando il dolore si placa, chiedo a Dio di portarmi da te, presto. Penso alla Fede di Maria Coianiz, alle sue parole di fiducia, di accettazione del percorso. Penso che la Fede è un dono, un dono riservato a coloro che riescono ad alimentarlo anche nelle condizioni più avverse. Per me non è stato così. La pioggia batte sui vetri. Sento un lungo brivido lungo il corpo. Mi appoggio al termosifone caldissimo. Tuo padre appoggia sul tavolo la tua bella rosa di natale e mi abbraccia sussurrando che sei sempre con noi, ma la sua voce è rotta dal pianto.
La preghiera tiene sospesa l’ anima alla speranza. La preghiera al Signore tiene in vita la vita stessa. La vita quotidiana si tende verso la prece, soprattutto quando è evidente che le forze umane sono così tanto limitate. Chissà quali parole sussurrano le labbra delle donne anziane che guardano intensamente il cuore dell’altare maggiore . Chissà quali pensieri volano dietro i loro occhi scuri, velati dal pesante fazzoletto che avvolge il candore perlage delle loro chiome. Le guardo nell’ombra soffusa della prima colonna ai piedi del grande altare sul quale brilla fulgido il sacro tabernacolo. Su ogni volto delle donne sparpagliate qua e là tra i banchi delle navate silenti ed alte intuisco un disagio che nemmeno l’assenza indotta dalla composta prece può celare. Sono in angoscia gli animi delle donne che pregano in questi giorni lenti e difficili. Dietro il loro sguardo si percepisce il dilagare della preoccupazione. Pure io mi sento protetta nel tempio avvolto di silenzio; so che anche le donne si sentono come me. Nella protezione di quelle colonne splendenti, di quegli angeli marmorei che guardano il tabernacolo si percepisce ancora di più la precarietà della condizione in cui ognuno deve destarsi, sistemarsi, nutrirsi, provvedere a sé e agli altri. Sulla fronte delle donne in preghiera si scorgono nitidamente le rughe del pensiero fisso sull’incolumità dei propri cari. Pregano il signore, le labbra pallide e mobili. Pregano il signore di non chiamare i propri cari. So che chiedono al signore di prendere loro piuttosto. So che pregano di cambiare vita con vita. Lo so. So come si prega quando si teme per la vita di un figlio, un nipote, un marito, un congiunto. So quanto gela il grembo nell’angoscia della perdita temuta. Il gelo è stato a lungo detestato compagno della mia vita . Nessuna risposta arriva tuttavia dalla luce che il santo tabernacolo riverbera. Eppure le membra si riscaldano mentre la mente insegue le preghiere. Lo so come si sentono le donne nella soffusa oscurità della mia chiesa. Si alzano lentamente, si fanno il segno della croce. Se ne vanno silenti. Nessun rumore le segue. Sembrano sfiorare il pavimento di lucente pietra. Lasciano come ombre il tempio. Io le guardo finché anche l’ultima volta il battente dell’ antico portone si chiude. Resto sola, appoggiata alla fredda pietra della prima colonna. Sono vicina al tabernacolo. Non riesco a pregare. Non riesco a parlare col Signore. Sento il gelo attanagliarmi le gambe e il petto. Non c’è tregua nella vita. Non c’è arrivo. Eppure s’affaccia alle labbra la preghiera che insegnavo ai miei figli quando li mettevo a dormire nei loro lettucci caldi e candidi. È la mente che scorre rapida sulle antiche parole della mia maternità. Ripeto a lungo la breve prece. Le membra si scaldano a poco a poco. Penso solo alla preghiera. E prego lasciando la chiesa prego ancora. Prego finché la luce della piazzetta mi mostra la strada di casa.
Donami Signore la forza. Donami Signore la saggezza. Donami Signore la capacità. Donami Signore la fortitudine. Quante attitudini devo trarre dal fondo dell’anima straziata, mio Signore, per direzionare il mio corpo,. Quanta fortitudine, mio Signore, serve per lasciare alla sua consueta desolazione nella buia nicchia dell’abulia questo mio corpo straziato? Vuole correre, Signore, il mio povero corpo straziato. Vuole arrivare dove anni e anni di sofferenza per natura loro lo portano . Segue il moto sottile e potente di un’anima addolorata dallo scempio che una fiera ha fatto della vita altrui, della vita di un innocente che si affacciava festoso al nuovo giorno. Il corpo vorrebbe seguire pur muto e a brandelli il filo leggero e incorruttibile del pensiero. So bene dove portano le rozze gambe ingrossate e gonfie per i liquidi venefici che percorrono le membra del corpo grossolano, rozzo e flaccido, da sempre abbrutito, reso truce da inique generazioni che non hanno vero nome, non hanno vera casa. So dove si rintana tutta la beluinità del mondo dopo aver sporcato della sua presenza ignare ed ingenue figurine che cercano di fare del bene. È chiassosa la Piazza, chiassosa e brulicante di colori che addobbano le giornate di festa a venire. È piena di luci la Piazza, luci che illuminano l’incarnato luminoso degli innocenti, luce che scivola lungo i muri che restano in ascolto da millenni . Muri che hanno imparato a distinguere il grano dal loglio. Muri che ad onde consecutive si stringono e rabbrividiscoo al comparire dell’ipocrita iena, che ride come discinta baccante che ha compiuto il rito ferale, che ha soddisfatto la brama di crudità che la contraddistingue. Ride la iena, ride . Falsa ombra di velenoso male. Fasulla ombra di perbenismo, di carità, di sentimenti normali, di sentimenti buoni. Non c’è nulla di normale, non c’è nulla di buono dietro la menzognera sembianza che s’aggira intorno a una Piazza che accoglie anime incantate, anime innocenti, anime ignare. E ignari sono diversi di quei compagni che ridono attorno agli innocenti. Ignare sono diverse compagne che allungano la mano verso la richiesta degli innocenti. Pur tuttavia molti compagni e compagne conoscono la ferale natura che le sembianze tristemente note cercano invano di nascondere Molti, tanti sanno. Molti conoscono nei macabri dettagli tutto il male che quel corpo goffo ha arrecato proprio a innocenti, innocenti proprio come quelli che a loro si rivolgono tra la celia e le risate, nella Piazza Grande. I muri tutt’attorno s’adombrano rabbrividendo quando le carni marcescenti di una donna a loro s’accostano per intraprendere la strada del ritorno. Sono carni che hanno commesso sacrilegio, che hanno portato avanti, oltre l’umano limite, efferatezza e crudeltà. Le mura della Piazza hanno visto più volte il giovinetto dolente, ormai irrimediabilmente malato, ormai impossibilitato da una iniqua ferita, ormai vicino al traguardo della lunga sofferenza. Le mura della Piazza hanno visto le vesti bagnate di pianto di una madre che s’affrettava dolente al Tempio oltre la Piazza. Correva quella piccola, grande madre, correva come il vento che sovente soffia sul selciato e sui muri della Piazza. Correva la sottile figuretta di quella donna che tutto aveva dato all’ amor materno. Correva e s’infilava col vento dentro i viottoli che portano rapidi al grande, immenso Tempio del Signore. Tutti la notavano quella esile figurina, tutti ne avrebbero voluto fermare l’ affannata corsa per domandare , per capire, per aiutare, per lenire. Ma niente e nessuno poteva arrivare a quella mamma straziata. Non mano che potesse afferrare le sue, non voce che potesse scendere al suo cuore e sanarne almeno per l’ attimo il doloroso affanno. La madre correva, e il vento non faceva a tempo ad asciugare le sue lacrime . La madre correva al Tempio, ignara d’ogni sguardo, ignara di qualsivoglia presenza. Correva al Tempio la madre per supplicare il Signore, per chiedergli di prendere la sua stessa vita, per chiedergli di sanare quel bimbetto ferito da due anime nere e di restituirle il giovinetto che era riuscita a portare sino li, disperatamente, testardamente, ostinatamente. La esile madre, consumata dall’ansia, dalla sofferenza, dalle notti d’ angoscia andava al Tempio per affidare al Signore il suo figliolo, per pregare il Signore di ascoltarla, per chiedere al Signore che gli infiniti curanti potessero afferrare la guarigione, per chiedere che le tante cure sortissero gli effetti. La vita di quella madre scivolava diafana lungo le alte mura della Piazza, le alte mura dei viottoli . La vita di quella figurina scivolava via come il vento fra le dita, scivolava verso il buio come la tremula fiammella della vita di suo figlio , una fiammella che s’assottigliava sempre di più, che si spegneva ineluttabilmente. E quegli stessi compagni della fiera che tanto male aveva versato piansero in un nero di di sole, piansero per un giovinetto svanito, piansero per una madre sconfitta, Dopo, dopo seppero, chè la Fama precorre i suoi portatori. La Fama arriva per prima e maschera i volti degli astanti. Seppero in tanti che una maschera d’ipocrisia era venuta a cercarli, seppero che una trista parvenza s’era infilata tra loro. Molti tacquero come erano soliti fare per loro educazione. Ma altri non riuscivano a nascondere amarezza, disgusto, nausea. Più lontana da loro, dunque, lasciarono quella ombra che d’ umano non poteva più ascriversi nulla. Parlano ancora fra loro quando lei s’aggira ipocritamente fra loro. Sussurrano quando a loro si avvicina. Aspettano col fiato lievemente sospeso che costei se ne vada. Le loro espressioni si distendono quando quest’ ombra scura sfiora le antiche e guardinghe mura della Piazza Seguono con gli occhi che via via si rasserenano costei che se ne va, aspettano che scompaia, inghiottita da quel nerume che ha seminato per sé, per un’ombra pavida di uomo, per indegna, dispersa sua figliolanza. I compagni della Piazza rivolgono lo sguardo al Tempio. I pensieri di quei compagni vanno ai loro figlioli. Essi pregano che quell’ ombra indefinita e indefinibile mai li guardi negli occhi.