Dino Campana, dalla “Villa dei Pazzi” a Badia a Settimo
Le vicende post-mortem dei resti di un illustre scandiccese d'adozione
In questo articolo vi proponiamo un approfondimento su Dino Campana, il celebre poeta che ha lasciato un’impronta indelebile a Scandicci e luoghi limitrofi.
Dopo aver condotto una vita disordinata, il 12 gennaio 1918 lo scrittore originario di Marradi venne ricoverato nell’ospedale psichiatrico di San Salvi a Firenze; poco tempo dopo egli venne trasferito nel manicomio di Castelpulci, in quel di Scandicci. Lo psichiatra Carlo Pariani, che “seguì” il poeta dal 1926 alla morte, gli diagnosticò una forma di schizofrenia chiamata ebefrenia.
Quella dei Campana fu una famiglia veramente disgraziata: Mario, zio paterno del poeta, affetto da manie religiose, morì in manicomio nel 1902; mentre la madre Francesca Luti detta Fanny, una donna religiosissima e severa, morbosamente legata a Manlio (più giovane di Dino di tre anni), ogni tanto lasciava la propria abitazione senza che nessuno conoscesse la meta. Secondo alcuni studiosi l’origine del disagio psichico di Dino Campana andrebbe ricercato nella mania deambulatoria della madre.
Dai resoconti dell’epoca si viene a sapere che il poeta alternava momenti di lucidità ad altri di aggressività e confusione.
Nel 1928, quando uscì una nuova edizione dei Canti Orfici, curata dal giornalista e poeta Bino Binazzi (che nel 1922 dedicò a Campana un famoso articolo su Il Resto del Carlino), Campana, ci informa il Pariani, rivelò con acutezza e con una certa ironia i difetti e le modifiche apportate al testo pubblicato da Vallecchi.
In una lettera indirizzata al Binazzi, il marradese scrisse che l’editore avrebbe dovuto analizzare la prima edizione dei suoi Canti Orfici (edizione pubblicata a Marradi nel 1914 e scoperta solamente negli anni Settanta in casa di Soffici) prima di licenziare una seconda versione dell’opera. In una intervista dei primi anni 2000 Mario Luzi raccontò che la seconda edizione dei Canti Orfici contribuì a rilanciare la figura del “povero Campana”.
Nel 1931 Dino manifestò un notevole miglioramento nella lucidità mentale, ma la speranza del ristabilimento svanì ben presto: alla fine di febbraio del 1932 Dino venne colpito da setticemia acuta che lo portò alla morte il 1°marzo di quello stesso anno, intorno alle 11:45.
Il giorno seguente il direttore del manicomio scandiccese informò Manlio Campana del decesso «del suo adorato fratello». Le spoglie del poeta furono seppellite nel cimitero di San Colombano, «entro il recinto dei poveri morti pazzi».
Nel 1938 il dottor Pariani pubblicò, per i tipi di Vallecchi di Firenze, le biografie («non romanzate») di Dino Campana ed Evaristo Boncinelli, scultore scandiccese nato a Mantignano nel 1883, che, come Campana, venne sì rinchiuso in un manicomio, ma in quello di San Salvi, dove morì nel 1946.
Dopo aver letto la biografia del medico curante di Campana, Piero Bargellini si precipitò a San Colombano. In una rivista letteraria dell’epoca, con una certa amarezza, egli scrisse che la tomba del Campana «non ha neppure le braccia nude d‘una croce. E mi torna alla mente […] quello che dice ancora il medico Pariani nel suo libro: «Col 1942 gli avanzi di Dino Campana, se nessuno li richieda, andranno dispersi.» Non ci sarà più segno di lui sulla terra».
Un messaggio agghiacciante!
«Orsù, non più indugi!» disse fra sé e sé il Bargellini, e in quello stesso 1938 lanciò una “petizione” per la sistemazione definitiva della salma del poeta. E così fu. Molti artisti, intellettuali e uomini di potere ( come il ministro Bottai) furono coinvolti in questo “progetto”. Lo stesso Bottai inviò all’intellettuale fiorentino un prezioso contributo di 200 lire dell’epoca.
Il 3 marzo 1942, in occasione del decimo anniversario della scomparsa di Campana, gran parte del “gotha” della cultura italiana dell’epoca depose la cassetta contenente i resti di Dino nella duecentesca cappella di San Bernardo della Badia a Settimo, all’epoca “fresca fresca” di restauro.
Purtroppo il destino, anzi la guerra, giocò un brutto scherzo al povero Dino: due anni dopo, il 4 agosto 1944, l’esercito tedesco in ritirata fece saltare con una carica esplosiva il campanile della badia, distruggendo nel contempo anche la sottostante cappella di San Bernardo. Tanto per la cronaca: il campanile della Badia di Settimo venne ricostruito nel dopoguerra «dov’era e com’era» ma non la cappella scandiccese, la cui memoria è affidata alle fotografie scattate prima di quel tragico evento.
Le peripezie post mortem del Campana cessarono alla fine del secondo conflitto mondiale: recuperata tra le macerie, la salma venne tumulata nella navata sinistra della badia il 7 dicembre 1946, a pochi passi dalla seicentesca cappella di San Quintino, ove si trova tutt’oggi.
In anni recenti è stato collocato un monumento sulla cui superficie sono incisi alcuni suoi importanti versi, mentre fuoriesce dalla “pancia” del suddetto monumento, il capolavoro campanaro, i Canti Orfici.
Leonardo Colicigno Tarquini, storico dell’arte medioevale.
Bibliografia consultata
Dino Campana da Castelpulci a Badia a Settimo, a cura di L. Bertolani e M. Moretti, Scandicci, Centrolibro, 2007;
Marco Gamannossi, L’abbazia di San Salvatore a Settimo. Un respiro profondo mille anni, Firenze, Edizioni Polistampa, 2013.