Da medico a paziente, la mia battaglia contro il Coronavirus
«L'esperienza vissuta con il Covid-19 sarà preziosa per il mio lavoro di pneumologo, rientrerò a lavorare con una consapevolezza nuova. Ho sofferto dolore e distanza sociale, ma ho sentito forte la vicinanza della famiglia e dei colleghi»
La cronaca di questi giorni ci riempie di dati di contagiati. Curve che salgono, curve che scendono. Ciò che dietro a tanta astrazione statistica rimane nascosto, è che dentro a ogni punto di quelle curve c’è un dramma umano, una battaglia, a volte vinta, a volte persa. E tra i tanti numeri, quelli impressionanti dei sanitari contagiati, che a volte presi dal fatalismo diamo per strutturali. Ci limitiamo a ripetere il mantra del medico-eroe, dell’immolato per la patria. Così che anteponiamo l’icona alla realtà, senza considerare la storia di carne, ossa, cuore e cervello sotto a quel camice bianco. Rimane un punto sulla curva, solo insignito di onor di medaglia d’oro (o meglio di latta: due spiccioli in più in busta paga). Poi scopri che sotto al camice c’è il tuo vicino. Allora sai che quel punto ha un volto, una voce, un’anima.
Tommaso è una di quelle storie vicino a noi. Nato e cresciuto all’Isolotto, ha lottato due volte contro il Covid-19. Prima da medico, poi da paziente. Ora è tornato a casa, vincitore, ma ferito. Uno dei primi casi di Firenze, quando ancora molti di coloro che la settimana successiva avrebbero invaso le loro bacheche di hashtag #iorestoacasa, si prodigavano nelle campagne social #firenzenonsiferma e #culturacontropaura.
«Non era un malessere simile all’influenza»
Tutto è iniziato ai primi di marzo, e ancora non è finito: «Ho cominciato ad avere malessere giovedì 5 marzo, con la classica sintomatologia e forte febbre – racconta Tommaso – Non era un malessere simile all’influenza; era qualcosa di profondamente diverso. Così fino a venerdì, che andai a lavoro e sabato mattina già stavo bene; declinai la cosa come un banale colpo di freddo, un malanno stagionale. Quel giorno, non avendo ancora capito la cosa, andai anche a trovare la mia famiglia. L’8 pomeriggio comparve di nuovo la stessa sintomatologia fino al 10. Ebbi la percezione medica che si stesse trattando di un qualcosa di diverso dal malanno che avevo pensato inizialmente. In quei giorni stavano dichiarando l’emergenza».
«In quel momento ho avuto la consapevolezza che molto probabilmente ero stato contagiato»
Poi una notizia che fa maturare in Tommaso la consapevolezza di essere contagiato: «Il 10 mi arriva la notizia che una mia amica, con cui ero stato a cena il primo marzo, era stata ricoverata per Covid-19. Uno dei primissimi casi di Firenze. C’erano altri tre amici a quella cena, sarebbero poi risultati positivi altri due, oltre a me. In quel momento ho avuto la consapevolezza che molto probabilmente ero stato contagiato. L’11 di nuovo febbre, una tosse incoercibile, strana, tanto che la notte stavo per svenire. Nuovamente il 12 sera ricomparsa di febbre e un malessere ancora più profondo. Alle 3 di notte ho chiamato il 118: inizialmente non volevano venire, mi dicevano di aspettare l’evoluzione all’indomani; ho dovuti convincerli da medico, che la situazione clinica era fortemente sospetta e che avevo avuto contatto con un caso accertato».
«I tamponi sono spesso meno indicativi della manifestazione clinica»
«Il 118 mi ha portato direttamente in malattie infettive, ancor prima del tampone ed è stato giusto. Questo perché i tamponi sono operatore-dipendente, a volte sono negativi perché sono fatti in maniera non corretta, poi c’è da considerare il periodo finestra. I tamponi vanno fatti bene e da personale molto qualificato, sono spesso meno indicativi della manifestazione clinica. Tuttavia non ho la certezza di essere stato contagiato dalla mia amica. In seguito ho saputo di aver avuto altri due contatti: il 2 marzo ho visitato un paziente con una forte tosse, che era arrivato tranquillamente dalla Thailandia, con scalo a Parigi; venerdì 29 febbraio avevo inoltre visitato un’altra paziente che poi ho saputo essere stata ricoverata per Covid. Ho avuto quindi tre contatti sicuri».
«Non avevo mai percepito una distruzione tale. Ti senti una sensazione di cupo dentro»
Se la vulgata parla di sintomi influenzali, per chi quei sintomi li ha vissuti in prima persona, la percezione a livello soggettivo è profondamente diversa: «febbre resistente alla tachipirina, tosse secca, stizzosa incoercibile, con accessi tipo pertosse, in escalation: cominciava piano piano piano per poi crescere in maniera esponenziale, per venti minuti. Ho notato che si andava ad associare all’innalzamento della temperatura, partiva la tosse, cominciava la febbre. Senti una sensazione di malessere ovunque, in qualsiasi parte del tuo corpo. Non avevo mai percepito una distruzione tale. Ti senti una sensazione di cupo dentro. Ovviamente c’è anche la componente emotiva che gioca la sua parte. Altra cosa è il dolore toracico, forse dovuto all’attivazione dei muscoli intercostali».
«Nonostante sia pneumologo, non avevo assolutamente la percezione della dispnea: è una caratteristica grave della malattia»
«Non hai la percezione di respirare male: nonostante avessi questa tosse, questa febbre, io, da medico, persino pneumologo, con doppia consapevolezza quindi, non avevo assolutamente percezione della dispnea. La sera che mi trasferirono in terapia intensiva, leggevo tranquillamente un libro. Mi è passato a visitare il collega, mi ha guardato l’emogas e mi ha trasferito subito in terapia intensiva. Anche questa è una caratteristica grave di questa malattia: la dispnea è un meccanismo di difesa. La sera che chiamai l’ambulanza, è stato perché avevo il saturimetro a casa: ho visto che avevo valori molto alti a riposo e mi sono allarmato. È per questo che tanti arrivano in condizioni gravi, non ti rendi conto di respirare male. Persino quando ero sotto il casco, per 48 ore, ero tranquillamente a spippolare al cellulare, non mi sentivo in affanno. Probabilmente gioca un ruolo anche l’ipossemia, che dà sensazione di stordimento».
«Sono molto credente e sentivo che non ero solo, mi sentivo stranamente molto tranquillo»
Oltre le spiegazioni scientifiche, però, la fede certamente ha avuto un ruolo psicologico determinante: «Sono molto credente e sentivo che non ero solo, mi sentivo stranamente tranquillo. Da cattolico ma al contempo medico, non so se ciò è dovuto alla fede, o allo stordimento dovuto alla poca ossigenazione nel sangue».
«Il personale è stato eccezionale: medici, infermieri, oss, hanno avuto un amore e una professionalità unica»
Così come l’umanità, il calore dei sanitari ha aiutato molto Tommaso: «Ho avuto dei momenti di paura, da medico mi rendevo conto che non andava bene e che stavo peggiorando, vedevo come si comportavano i colleghi. E sono stati tutti meravigliosi. Il dottor Pavoni veniva di persona da tutti i pazienti. Capivo che era preoccupato, ci sono stati momenti di sconforto in cui ho pianto, ma è stata una frazione di tempo minima rispetto a quelli in cui mi sentivo calmo». Tuttavia questo virus ti mette di fronte alla crudele realtà della sua natura, quella di una catena di molecole senz’anima che senza un motivo, senza coscienza, è lì a cercare di strappare via la tua, di coscienza: «In reparto eravamo cinque su venticinque tra i 35 e i 45 anni, gli altri, per la maggior tutti 70-80enni. Il signore che stava di fronte a me in terapia intensiva è morto: aveva 59 anni. È stato il peggior momento, sono scoppiato a piangere. Il personale è stato eccezionale: si sono accorti che avevo capito e sono venuti a consolarmi oss, medici, infermieri. Hanno avuto un amore e una professionalità unica».
«Ho imparato molto da questa esperienza: quando tornerò in reparto, spiegherò e vorrò comportarmi così io per primo, ho capito che spesso una parola, un gesto valgono più della terapia»
In tanto dolore però germoglia un seme di bontà: «Mi hanno fatto tutte le terapie appena uscivano, una tempestività di aggiornamento incredibile. Lo sottolineo, un amore unico, sia con me che con gli altri, mi sono sentito amato come deve sentirsi un paziente. E una delicatezza nel comunicarti e spiegarti ciò che stanno facendo che mi ha lasciato davvero stupito. Ho imparato molto da questa esperienza: quando tornerò in reparto, spiegherò e vorrò comportarmi così io per primo, ho capito che spesso una parola, un gesto valgono più della terapia. il più grande ringraziamento va a tutto il reparto malattie infettive di Ponte a Niccheri, al dottor Lorenzo Mecocci, al dottor Lorenzo Suardi, alla dottoressa Vichi, al dottor Pavoni, il primario, sono stati veramente eccezionali. E poi anche agli oss, agli infermieri e a tutti gli operatori di terapia intensiva».
«Certo ho sofferto molto la distanza sociale, ma ho sentito al contempo forte la vicinanza dei miei familiari e dei miei amici»
E poi c’è la tecnologia, spesso demonizzata, ma che ha aiutato tanto il ricoverato a stare connesso con il mondo, lontano dai suoi pensieri, vicino ai familiari che non potevano andarlo a trovare: «L’ossessione che ho avuto in quei giorni è stata il cellulare. A differenza, purtroppo, dei tanti nonnini che erano soli con i propri pensieri, senza uno smartphone, a me ha permesso di rimanere a contatto con la realtà. Scrivevo, leggevo, facevo videochiamate; ho tormentato gli infermieri continuamente di tenermi sotto carica il cellulare. Gli amici mi mandavano messaggi, mi confortavano. Certo ho sofferto molto la distanza sociale, ma ho sentito al contempo forte la vicinanza dei miei familiari e dei miei amici».
«Quando rientrerò, tra qualche settimana, lo sicuramente con una consapevolezza diversa. L’esperienza vissuta mi renderà più preparato e sarà preziosa per il mio lavoro di pneumologo»
Un virus che ti mangia dentro, anima e corpo: «Le mie radiografie ed ecografie presentano un quadro devastante. Mentre dopo una polmonite normale in una settimana si mostrano miglioramenti eclatanti, nel mio caso vedo una ripresa lentissima. Dopo undici giorni che sono a casa, da zero a dieci sarò migliorato tre. Il primo giorno mi affaticavo anche a mangiare. Ieri durante una videochiamata con gli amici, appena mezz’ora a mangiare e parlare ho dovuto dire che andavo a letto. Eppure sono una persona iperattiva, non mi stanco facilmente e ho 43 anni. Immagino come possa essere la ripresa in una persona anziana. Spero di tornare a lavoro verso il 20 di maggio, ma non è ancora detto, sto vivendo tra la sedia e il letto. Quando rientrerò, tra qualche settimana, lo farò sicuramente con una consapevolezza diversa. L’esperienza vissuta mi renderà più preparato e sarà preziosa per il mio lavoro di pneumologo».