1630, la peste a Firenze e le prime misure d’igiene pubblica
Al tragico evento seguirono provvedimenti per tutelare la salute dei fiorentini
La peste del 1630 decimò l’Italia. Firenze pagò un prezzo altissimo. Da questo evento tragico però nacquero i primi provvedimenti di salute pubblica.
La peste del 1630 sconvolse l’Italia e accelerò un declino che sembrava segnato. Lo stesso Granducato aveva perso la centralità conquistata nel secolo precedente. Firenze fu tra le città più colpite insieme a Livorno mentre Siena ne fu risparmiata. Il morbo iniziò a diffondersi nel mese di giugno e imperversò con ondate successive fino a settembre del 1633 secondo il Corradi ne “Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850”.
Delle circa 76 mila persone registrate nel 1622, nel 1632 un nuovo censimento ne contò circa 66 mila. Da tener conto che il primo censimento è precedente all’inizio della pestilenza e che ambedue conteggiano solo la popolazione dentro le mura. Solo leggendo i numeri si capisce che l’ondata di peste del 1630 fu drammatica ma portò anche i primi provvedimenti di igiene e salute pubblica come nota Marisa Brogi Ciofi nel suo “La peste del 1630 a Firenze con particolare riferimento ai provvedimenti igienico-sanitari e sociali”. Misure che prima erano saltuarie, scoordinate vennero codificate.
A portare il contagio era stato un “pollaiolo” – si racconta – che da Bologna venne a Trespiano dove morì lui ed altre sei persone da lui contagiate (Settimanni in “Memorie Fiorentine”). All’inizio ci fu, al pari della Milano, una sottovalutazione generale del pericolo. A Firenze è d’uso dividersi e si formarono subito due fazioni. Chi parlava di “febbri acutissime”, chi sosteneva esser peste. Questi ultimi vennero appellati “Spericolati”.
Il Granduca in prima linea
Chi fece di tutto prima per contenere poi per sconfiggere il morbo fu Ferdinando II (1610-1670). Il Granduca dettò provvedimenti corretti e fu, come notano i cronisti del tempo, protagonista in prima linea. Consigliava di allontanarsi da infetti o presunti tali e precisava come ci si dovesse prender cura degli ammalati financo a fornirgli conforto spirituale.
Non solo. Nel n.43 della Raccolta Ufiziali di Sanità c’è un’ulteriore lista dei provvedimenti adottati. Oltre ai precedenti c’era l’obbligo di denuncia, pene severissime (morte e confisca dei beni) per chi, affetto dal morbo, infrangesse l’isolamento in casa (le case de morti o malati erano contrassegnate con “un regolo rosso con entrovi scritto Sanità”), disposizioni per i luoghi di sepoltura.
Sopra uno dei questi tristi luoghi fu eretto in ricordo dei tanti morti l’oratorio San Carlo Borromeo al Pignone. L’edificio è stato al centro di una approfondita ricerca storica condotta da Isolotto Legnaia. Si è dimostrato che quello comunemente ricordato come l’oratorio era una cabina di manovra, costruita nell’Ottocento e demolita per far posto alla tramvia.
La disposizione più efficace fu senza dubbio la quarantena. Iniziò prima di Natale del 1630 per terminare, non senza difficoltà, nella Quaresima del 1631. La situazione si aggravò con lo straripamento dell’Arno il primo di febbraio. Particolarmente colpite, oltre alle campagne, furono le zone di Porta al Prato e Borgo Ognissanti. Durante il periodo di massimo distanziamento sociale le autorità provvidero anche a sfamare gli indigenti. Per meglio controllare il rispetto degli ordini la città fu divisa in sestieri capitanati da “ventiquattro gentiluomini”. Furono inoltre chiuse tutte le botteghe ad eccezioni di quelle dell’Arte della seta e della lana oltre a quelle che vendevano beni di prima necessità.
Come in molte altre città italiane furono aperti dei lazzaretti. Il primo fu lo Spedale di Bonifacio in via San Gallo, quindi alla Vecchia Badia sotto Fiesole, poi a San Marco Vecchia e infine un altro al Maccione (Campi Bisenzio). Nel 1633, quando la pestilenza riprese, un nuovo lazzaretto fu aperto a Monticelli. Fu nominato anche un governatore generale dei lazzaretti, padre Pier Francesco Mainardi, cappuccino, che si trovò a gestire una situazione disperata, con oltre 400 malati, dovendo anche metterne più d’uno nello stesso letto. A luglio del 1630 il morbo era scomparso dalla città sebbene continuasse a sprazzi nelle campagne fino a settembre. Rintocchi di campane e colpi di cannone salutarono la fine della disgrazia.